ENTRA NEL MONDO DI CHERONEA

La trilogia di Bruno de Filippis

Domande esistenziali (maneggiare con cura)

Pillole del mattino

Numero 1

L’ottica universale

 

Se vogliamo capire se la Terra sia piatta o tonda dobbiamo guardarla dall’alto

Se vogliamo guardare oltre le colline dobbiamo arrampicarci

Se volgiamo allargare la linea del nostro orizzonte dobbiamo salire in alto

Se vogliamo avere un campo largo dobbiamo usare un grandangolo

 

Se vogliamo capire un uomo dobbiamo conoscere il suo passato

Se vogliamo capire un evento storico dobbiamo conoscere la storia che lo precede

 

Se vogliamo rispondere alle domande che la filosofia pone, dobbiamo assumere un angolo di visuale che corrisponda all’ampiezza di esse

 

Quest’angolo può persino essere il singolo uomo (per il quale dire che è infinitesimale parte del Tutto significa sovrastimare), ma solo se egli non pensa di essere se stesso ma immagina di essere tutta l’umanità, se immagina di essere tutta l’umanità dal passato al futuro, anzi di più: se immagina di essere tutti gli esseri viventi dal passato al futuro, anzi di più, se immagina di essere l’intero universo conosciuto, dal big bang alla possibile fine per concentrazione o dispersione entropica.

 

Prima di porsi domande su chi siamo e dove stiamo andando, occorre chiedersi cosa è l’universo e dove sta andando. Prima di cercare di capire se l’uomo ha uno scopo, occorre chiedersi se lo ha l’universo.

 

L’ottica “universale” è la più alta che possiamo attingere. Probabilmente ve ne sono di più alte ancora (come l’universo degli universi possibili, di tutto ciò che poteva o potrebbe accadere) vi sono altri gradini di conoscenza, ma noi non li vediamo, né riusciamo agevolmente a immaginarli. “Accontentiamoci” quindi dell’ottica universale.

 

Chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo sono domande che, secondo alcuni, dobbiamo porci, ma che, secondo la maggioranza, lasciano il tempo che trovano e sono molto meno importanti di tutte le domande legate alla quotidianità e ai nostri bisogni.  Costoro lasciano che la religione del posto o le superstizioni e le protezioni che esse assicurano rispondano a tutte le domande e sopiscano i loro dubbi. Bella cosa, le certezze e la tranquillità che le religioni danno. Chi non le accetta deve provvedere da solo e ciò è molto più faticoso e meno definitivo.

 

 

Rispetto agli altri animali, abbiamo imparato ad alzare la testa, ma non abbiamo imparato a guardare il cielo, prigionieri, come siamo, della nostra piccolissima soggettività.

Ciò influenza ogni visione o pensiero. La nostra ottica temporale è quella dell’attimo presente, con un leggero margine di proiezione per l’immediato futuro, in una scala che procede per secondi, rispetto a un universo per il quale persino le nostre Ere sono piccoli segmenti.

Cosa speriamo di capire, se ci fermiamo qui?

 

La visione che ogni in individuo ha è una visione così parziale da rendere statisticamente impossibile che sia corretta. È falsata dal presupposto iniziale (sono il centro dell’universo) e dall’infinitesimale possesso di conoscenza (come se dovessimo capire chi è l’assassino vedendo solo il titolo del film, anzi solo la prima lettera del titolo del film, il primo trattino che formerà la prima lettera del titolo del film).

Sappiamo stare eretti, ma non abbiamo un occhio al centro della testa. Per vedere il cielo dobbiamo alzare lo sguardo.


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Pillole del mattino

Numero 2

Scopo dell’Universo

 

Supponiamo di essere l’intero universo che si interroga su sé stesso.

L’universo ha letto Darwin (ha letto tutto ciò che conosciamo) e intende applicare un metodo scientifico di osservazione e deduzioni in base a esse.

“Perché moltiplico tutto nella misura maggiore possibile? Perché tante galassie e tante stelle? Perché tanti pianeti? E così tante forme di vita? Perché per ognuna di esse moltiplico tanto gli individui che la compongono? E gli uomini, quella piccolissima e sciocca specie che tanto si agita, perché ne sforno all’infinito?

È come se inconsciamente sapessi che devo scoprire qualcosa e che devo farlo in un tempo limitato. Mi baso sulla probabilità. Più sono le galassie, le stelle, le forme di vita e persino gli uomini, più esse aumentano.

So che devo cercare, ma non so cosa. Vado alla cieca, consapevole che se lanciassi in aria un numero infinito di volte le letterine dell’alfabeto, in una di esse (come dicono gli uomini) la Divina Commedia si scriverebbe da sola.

Ma non ho un tempo infinito. Per questo le mie moltiplicazioni sono frenetiche.

Dalle moltiplicazioni ho imparato qualcosa, un filo logico c’è.

La realtà non è statica. All’inizio non esisteva lo spazio e poi con il Big bang è arrivato.

Non esisteva la luce e la luce è arrivata. E così non esistevano pianeti in cui poter vivere e non esisteva la vita e gli esseri viventi non erano capaci di muoversi. Via via ho scoperto il movimento e poi l’intelligenza e la coscienza e l’autocoscienza. Sono giunto a creare esseri che sanno muoversi e sono coscienti di sé. Un bel risultato. E questi esseri hanno imparato a usare attrezzi, hanno scoperto il fuoco e la ruota, eccetera, eccetera, eccetera. Ora si affacciano persino nello spazio, superano la prigione del loro pianeta, che sembrava invalicabile; cominciano a guardare ciò che per loro è infinitamente piccolo e infinitamente grande.

Dunque, vi è un percorso, che si voglia o no, la mia auto osservazione porta a concludere che vi è un percorso, che si può chiamare evoluzione e che il compierlo porta a un grado sempre maggiore di conoscenza, autoconsapevolezza e potere.

Conoscenza, potere e capacità di gestirli sono cose che mi affascinano. Sento dentro di me che sono ciò che cerco.

È un salto logico troppo azzardato concludere che il mio scopo è il progresso?

Se pronuncio questa parola mi sembra che ogni cosa vada al suo posto, che tutto trovi un senso, a dispetto di quanto il mio mortale nemico, l’entropia, vorrebbe”.


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Pillole del mattino

(dove “pillole” sta per sintesi di spiegazioni più articolate e complesse)

 

 

Numero 3

Scopo dell’uomo

 

Se l’universo ha uno scopo e questo scopo è l’evoluzione, come questi concetti si trasferiscono all’uomo?

Data per scontata la premessa (vedi pillola numero 2), le possibilità sono:

1)     L’universo ha uno scopo e l’uomo no.

2)     L’uomo ha uno scopo diverso da quello dell’universo, magari confliggente con esso.

3)     L’uomo ha uno scopo direttamente derivante dallo scopo dell’universo.

(N.B. Adoperiamo il termine universo per riferirci all’entità massima che conosciamo, ma la sostanza del concetto non cambierebbe se al disopra dell’universo vi fosse l’universo degli universi o qualche altra cosa, che potremmo definire il Tutto. Anche se il Tutto fosse molto al di là della nostra comprensione o immaginazione, le linee del ragionamento che stiamo svolgendo non cambierebbero)

 

La possibilità sub 1 è irrazionale. Se l’intero ha una struttura finalistica, essa si estende a ogni sua singola parte. Le leggi che governano il tutto governano anche le parti, se esse sono tali.

Cercando di risalire dall’infinitamente piccolo, che noi vediamo, fino a ciò che è complessivo, osserviamo che se una pianta ha come obiettivo vivere e riprodursi, le sue foglie, i fiori e i frutti sono collegati e funzionali rispetto a esso. Allo stesso modo, i singoli organi del corpo umano non sono distaccati e autonomi, non fluttuano finalisticamente all’interno o intorno al corpo stesso, ma hanno, ciascuno, un compito preciso, destinato a far sì che il corpo compia il suo ciclo vitale.

Non si può logicamente alterare il rapporto tra parte e tutto, non si può mettere la prima al di sopra del secondo, in funzione del quale essa esiste.

 

La possibilità sub 2 presuppone che noi siamo “figli del diavolo”, vale a dire siamo stati seminati nell’universo da una forza ostile, per contrastarne i fini. L’osservazione del mondo, la logica, la razionalità (unici strumenti che abbiamo) dicono che, se una forza ostile all’essere esiste, non agisce direttamente, ma è un ostacolo, una resistenza passiva. Essa resiste ai tentativi dell’essere di evolversi, ma non è a sua volta un essere, bensì è “non essere”, è il nulla assoluto, il caos. Il “non essere” non semina e non crea, non ne è capace, altrimenti sarebbe, a sua volta, essere. Non siamo figli del diavolo (cioè delle forze che si oppongono all’evoluzione e al progresso), anche se ben possiamo esserne inconsapevoli strumenti.

 

La possibilità sub 3 è l’unica razionalmente ipotizzabile. Se l’universo ha come scopo l’evoluzione, il passaggio dalla non vita alla vita e la tensione verso tutte le potenzialità realizzabili, per arrivare alla fine del percorso, lo scopo dell’uomo è contribuire a esso, percorrere un tratto di strada in questa direzione. Non sappiamo quanto piccolo o grande. Se l’universo che conosciamo fosse l’unico esistente e se la Terra fosse l’unico pianeta sul quale si è sviluppata la vita intelligente, la nostra funzione sarebbe molto importante. Lo sarebbe meno che vi fossero altri universi (milioni?) o, nel nostro, altre intelligenze. In tutti i casi dobbiamo comprendere qual è la nostra parte e impegnarci per svolgerla. Lo scopo dell’uomo è adoperarsi per l’evoluzione della scienza e della conoscenza, per il progresso tecnologico e civile.

 

 

 




 

 



  dove stiamo andando e perché

 

LA TEORIA DELL'APPRENDISTA STREGONE

ovvero, avendo molte cose da dire e non potendo dirle tutte insieme e non essendo esse comprensibili singolarmente se non sono state prima dette tutte, ma non potendo essere dette tutte se non si comincia a dirne una, cioè, dovendo comunque cominciare da qualche parte, pur sapendo che qualunque inizio è arbitrario e fornisce al lettore una prospettiva errata, che potrà correggersi solo successivamente, come se si dovesse raccontare come è fatta una sfera e non si potesse mostrare una semplice fotografia, ma si dovesse partire dalla descrizione di uno dei punti della sua circonferenza,

si sceglie di partire da qui.

1

"Sono   apprendista stregone di una congregazione molto potente, che le creature mortali, se

potessero conoscere, collocherebbero subito sull'Olimpo, nella categoria delle più alte divinità.

Devo costruire un essere che non si fermi mai o almeno compia un cammino più lungo di quello che

compiranno gli esseri realizzati dai miei concorrenti per questa prova.

Un essere che non si fermi, deve essere dotato di un meccanismo di propulsione, costituito, come è

scritto sui manuali, da un misto di premi e punizioni.

Il mio compito è dosare saggiamente questi elementi, meglio di quanto possano fare gli altri, ma

anche di spingere il meccanismo fino alla sua massima potenzialità.

Devo "caricare l'elastico" quanto più è possibile, evitando ovviamente che si spezzi.

Agirò su due versanti, quello fisico e quello psicologico.

Dal punto di vista materiale, ho già realizzato un essere che si presta allo scopo, con un "corpo"

capace di avvertire piacere e dolore e, quindi, possibile veicolo di ogni sollecitazione.

Per la verità, ho riutilizzato lo schema della "scimmia", da me costruita per superare brillantemente

gli esami dei ciclo precedente, apportandovi solo poche, anche se significative, varianti."

Accorgimenti usati dallo stregone:

a) Inappagamento, appagamento dei risultati e appagamento della ricerca.

Il nuovo essere è fornito di un meccanismo per il quale tende ad essere perennemente inappagato.

Vi è un forte gap tra ciò che può ottenere nella vita e quello che da essa si aspetta (tra realtà e

sogni).

Egli si trova nella condizione del commensale, il quale veda esposta, sulla tavola, una grande torta a

mille gusti e sappia che. bene che vada, ne potrà assaggiare solo un pezzo piccolissimo, con un

gusto solo.

 

Un costruttore che avesse avuto uno scopo diverso, quale quello della tranquillità della creatura,

avrebbe come prima cosa fissato una proporzione, con minimi margini di oscillazione, tra desideri e possibilità effettive dell'essere. Non l'avrebbe fornito affatto della sfera dei desideri oppure, se l'avesse fatto, gli avrebbe dato una ''capacità di desiderare'" proporzionata alla sua figura e non "smodata" come quella che in effetti ha.

La proporzione, per quanto ne sappiamo, esiste e funziona perfettamente per gli animali. Se ne accorgeva Leopardi, quando si chiedeva perchè il pastore errante venisse assalito dal "tedio", a differenza di quanto avveniva per le tranquille pecore).

Uno scultore il quale, per mero errore e non per scelta, realizzasse una statua con un braccio di pochi centimetri e l'altro di alcuni metri, inorridito si affretterebbe ad apportare le dovute correzioni.

Allo stesso modo un costruttore saggio avrebbe eliminato l'evidentissima sproporzione e non avrebbe messo in circolazione un essere con una parte palesemente ipertrofica rispetto all'altra.

(Il simbolo dell'essere in questione può essere Alessandro Magno, inappagato ed in cerca di nuovi confini, anche dopo aver conquistato tutto ciò che poteva esserlo).

In realtà il gap è fortemente voluto. Lo stregone non ha sbagliato, ne poteva farlo in maniera così clamorosa: aveva solo bisogno di realizzare, per gli scopi che si prefiggeva, qualcosa di simile ad Alessandro Magno.

Il meccanismo usato è, in effetti, più sofisticato.

Non solo vi è il gap tra desideri e possibilità, ma il "filo" che provoca il ''contatto" tra "il piacere" e essere non è stato collegato interamente al risultato, come sarebbe stato logico, ma. in buona parte, alla ricerca di esso.

Il costruttore non ha "esagerato", perché anche il raggiungimento dei risultato dà soddisfazione, ma. sovente, la ricerca ne dà di più.

Spesso l'essere in questione si sente vivo ed addirittura felice quando sta lottando per raggiungere ciò cui aspira e si ritrova spento e vuoto quando ha raggiunto il suo obiettivo e non ha altro per cui lottare.

Ciò è paradossale e si spiega solo col fatto che il costruttore abbia cercato di realizzare un essere predisposto ai massimo grado per un lungo ed ininterrotto percorso di ricerca.

b) Malattie, imperfezioni e sofferenze.

Questo punto è decisivo e qui veramente si è calcata la mano.

Si pensi ad una cavia, un topolino bianco, chiuso in un labirinto, cui uno scienziato voglia far

compiere, per un importante esperimento, un lungo e difficile percorso.

II premio del cibo sarà sufficiente per farlo muovere, ma non per tenerlo "sempre in movimento" e
neppure per fargli comprendere la configurazione meccanica del percorso ed i segreti del labirinto,
tanto da renderlo veramente padrone dello stesso e consentirgli, alla fine, di uscirne.

Per ottenere ciò, dovrà farsi ricorso necessariamente alla sofferenza.

Una scossa elettrica indicherà che la cavia deve recarsi in un punto ed abbassare una piccola leva.

Se non lo fa. continuerà ad esserne tormentata. Grazie ad una serie programmata di dolorose scosse

elettriche, la cavia, se non soccomberà, compirà tutto il percorso previsto dall'esperimento.

Questo concetto è utilizzato dallo stregone ed in ciò consiste il secondo accorgimento.

L'essere da lui costruito è largamente predisposto alla sofferenza e la incontra continuamente sul

proprio cammino.

E' predisposto alla sofferenza, perché la sua struttura psicologica la teme e ne amplifica gli effetti.

Nessuno come Tessere in questione è capace di "estrarre" sofferenza dagli eventi, piccoli o grandi.

della vita e di viverla intensamente, assorbendo tutto il contenuto negativo che essa può dare.

Il meccanismo di predisposizione inserito nell'essere è raffinato, perché egli non solo è capace di

provare dolore per i fatti che lo toccano direttamente, ma anche per quelli che coinvolgono entità a

lui vicine e addirittura per le vicende che capitano ad esseri lontani nello spazio e nel tempo, mai

incontrati e dei quali ignorava persino l'esistenza.

 

(Come si vede, questo meccanismo è stato utilizzato con la massima espansione possibile, come se si tenesse in modo particolare ai risultati che esso può dare).

Oltre ad essere predisposto alla sofferenza, l'essere la incontra continuamente sul proprio cammino. Essa costituisce un'esperienza imprescindibile e significativa della sua esistenza singola e collettiva

(in quanto specie).                                           ,

La sofferenza però - ed in ciò essa rivela la propria funzione strumentale - è sempre superabile, e

una sfida, a volte apparentemente impossibile, che spesso richiede, per essere vinta, sforzi ed

energie enormi (secondo il principio che tende a mantenere sempre impegnato al massimo il

topolino bianco), ma che comporta, ogni volta che viene vinta, un progresso (la cavia va avanti nel

labirinto).

Lo stregone poteva dare all'essere la salute della formica. In tal caso questi non si sarebbe mai

ammalato, ma, non esistendo le malattie, non sarebbe esistita neppure la medicina e l'essere non

avrebbe mai compiuto alcuno sforzo per comprendere la propria struttura ed i meccanismi del

proprio funzionamento.

Le motivazioni di quanti hanno realizzato piccole o grandi scoperte sono sempre state legate, sia che

essi aspirassero alla gloria ed al denaro, sia che aspirassero soltanto al benessere dell'umanità,

all' utilità delle stesse. Senza Futilità, tutto sarebbe fermo e la medicina si troverebbe oggi ad uno

stato di evoluzione simile a quello dell'editoria specializzata per galline o   della tecnica per far

crescere gli alberi in orizzontale invece che in verticale, cioè di qualsiasi cosa assolutamente inutile.

E' stato detto che, se vi fosse   stata abbondanza di cibo, i primi uomini non sarebbero mai scesi

dagli alberi: il bisogno è sempre stato motore del progresso.

Senza le malattie non sarebbe esistita la medicina, senza la medicina non si sarebbe mai arrivati alla

genetica, senza la genetica non vi sarebbe la possibilità di ricreare l'uomo, predisponendolo per una

nuova fase, verosimilmente indispensabile, di evoluzione.

Poiché il cammino da compiere è enorme (si pensi alla distanza evolutiva che esiste tra i primi

esseri unicellulari e l'uomo e si proietti la differenza nel futuro, immaginando di essere alla metà o

ad un decimo, centesimo, ecc. del percorso) e perché, evidentemente, bisogna fare in fretta, una sola

malattia non sarebbe bastata.

Cento, mille, decine di migliaia di malattie, con tutto il loro carico di sofferenza, erano necessarie

perché ci fossero le motivazioni per studiare ogni centimetro della struttura umana, comprenderlo ed

imparare a governarlo (in proiezione: a rifarlo ed a rifarlo meglio).

Per questo lo stregone, che pur poteva farlo, non ha dato all'essere la salute della formica o la pelle

dell'elefante.

c) Le pepite d'oro

Lo stregone non poteva non far ricorso, visti i suoi fini, al meccanismo degli incentivi, non poteva

non distribuire una serie di premi lungo il percorso.

Egli si è detto: "Se la cavia troverà casualmente il primo incentivo, "la prima pepita'' e, andando

avanti, troverà la seconda, non ci metterà molto a capire che. lungo il percorso, ce ne sono altre, di

sempre maggior valore e. quindi, a capire che il suo compito è proseguire.

(Da questo punto di vista, lo stregone è rimasto deluso, perché sembra che ancora oggi, nel 2000.

l'uomo ancora non abbia chiaramente realizzato che il suo scopo è il progresso: forse la cavia si è

rivelata meno intelligente di quanto il suo programmatore prevedeva).

Le pepite sono di questo tipo: inventa la ruota e farai meno fatica a trasportare pesi; scopri il fuoco.

impara a controllarlo e potrai riscaldarti e mangiare cibi cotti; inventa la lavatrice e non dovrai più

andare al fiume per fare il bucato; costruisci l'aeroplano e potrai volare in posti lontani; realizza la

televisione e potrai divertirti ogni sera, senza muoverti da casa...

Ogni invenzione aumenta il tuo benessere, ogni scoperta ti fa star meglio, ti rende più libero, più

potente, accresce la tua dignità e la tua conoscenza, eleva la dimensione in cui si colloca la tua vita.

 

La strada del progresso è costellata di premi, che aumentano in proporzione geometrica: dalle prime
pepite del fuoco e della ruota alle attuali sono passati migliaia di anni, tra la televisione ed il
computer solo decine.                                          

Anzi, ciò che aumenta in progressione non è la distanza tra i premi, ma la capacita dell'uomo di raccoglierli. Le pepite sono sempre state tutte lì, sulla strada che egli deve percorrere, ma la sua velocità è aumentata (ed è aumentata proprio grazie alle capacità ed alle consapevolezza che gli sono state fornite dai premi precedenti).

E" facile intuire quante altre pepite e quanto ravvicinate, siano davanti all' uomo. Pensiamo ad esempio alla scoperta della "fusione nucleare a freddo'", all'energia illimitata, ai vantaggi ed ai cambiamenti di vita che da essa deriverebbero.

Cos'altro vuole l'essere realizzato dallo stregone per andare avanti e per farlo più in fretta possibile?

d) Il numero ed il rinnovamento degli individui

Un altro accorgimento usato dallo stregone consiste nel numero degli individui e nel loro continuo

rinnovamento.

Il numero è la risorsa di chi voglia aumentare al massimo le proprie probabilità di ottenere un

risultato: se vogliamo essere sicuri che un "solitario" riesca o che la freccetta giunga al centro del

bersaglio, chiediamo di poter fare il maggior numero possibile di tentativi.

Allo stesso modo lo stregone, per aumentare la possibilità che uno dei suoi esseri scopra il fuoco o

inventi la ruota, ne sforna un numero illimitato.

Occorrono molti esseri per sperimentare tutte le malattie, per trovare tutte le pepite, per sopperire

alla possibilità che alcuni di essi malfunzionino, ecc.

(Il numero è un accorgimento anche sotto il diverso profilo della inadeguatezza dei singoli

individui, così come ora sono possibili, di fronte all'enormità del compito loro assegnato, ma questo

aspetto non è ora oggetto di esame).

Un'altra manifestazione del ricorso al numero è il rinnovamento, il continuo e rapido succedersi

delle generazioni, ciascuna delle quali ha la possibilità di utilizzare i risultati raggiunti dai

predecessori, come se un lavoro dovesse essere finito e più squadre si alternassero e si succedessero

nel portarlo avanti..

Il rinnovamento, sia degli individui che delle generazioni, è necessario, in quanto gli altri

"accorgimenti", prima descritti, sono tali da .logorare gli esseri cui sono applicati.

Essere costantemente inappagati, avere una grande capacità di soffrire, avere molte sofferenze ed

essere sempre spinti a dare il massimo di sé, non serve certo a determinare esseri tranquilli e

duraturi, quanto richiama "l'idea dell'usa e getta"', come se l'apprendista si fosse reso conto che il

sistema da luì creato fosse tale da impedire che gli esseri inseriti in esso potessero avere lunga

resistenza e stabilità, ma non se ne fosse affatto preoccupato, risolvendo il problema con la perenne

disponibilità di individui nuovi.

(Forse è anche necessario che, almeno fino a che non vi sia alternativa al fatto che debbano essere

rapidamente sacrificati, non abbiano il tempo di capire qual è il proprio ruolo).

e) Predisposizione al finalismo

Se si considera tutta la realtà, si deve affermare che     ciò che segue temporalmente una conformazione globale dell'essere è effetto della conformazione globale precedente. Se si considerano porzioni di realtà, talora può identificarsi il singolo antecèdente causale di un singolo fatto.

L'identificazione individuale del rapporto causa-effetto è sempre comunque un' astrazione, perché un evento non è mai frutto di una sola causa.

 

Quando un albero della foresta brucia, è superficiale e parziale dire che il fuoco è effetto dei fulmine, perché, se intorno non vi fosse ossigeno, l'albero non brucerebbe.

Il fuoco è effetto delle proprietà del legno e delle condizioni dell'aria e, più in generale, di tutto il contesto di realtà esistente in quel luogo, a sua volta influenzato da ogni altro contesto che lo attornia, in un intreccio non districabile.

Ugualmente è arbitrario attribuire un effetto all'ultimo evento che lo precede nella catena causale, che a sua volta è ininterrotta. Perché dovremmo dire che l'albero è bruciato per il fulmine e non per il temporale che lo ha causato o per l' anticiclone per effetto del quale il temporale è sorto? (Quanto sia particolare il nostro modo di valutare, può desumersi dal fatto che non avremmo dubbi ad affermare che l'albero è bruciato a causa di un uomo, se venissimo a sapere che l'anticiclone è stato provocato volontariamente da uno scienziato).

L'identificazione delle singole cause è un'astrazione, che avviene in conseguenza del modo in cui l'uomo ragiona, degli schemi mentali di cui dispone.

L'essere umano, oltre ad essere portato a spezzare la catena delle cause per identificarne una, tende altresì ad attribuire ad ogni azione un significato ed uno scopo.

Egli agisce generalmente per raggiungere uno scopo ed ha una mentalità conseguente, tanto da attribuire, con la fantasia, finalità anche alle realtà inanimate od inconsapevoli. Non è arbitrario dire che questi schemi avrebbero potuto essere diversi.

Un essere orientato verso la "globalità", avrebbe potuto essere portato ad identificare cause generali ed un essere non finalistico avrebbe potuto avere valutazioni puramente sequenziali della realtà (avrebbe valutato la successione degli eventi allo stesso modo in cui noi valutiamo il rapporto tra due paesaggi che si succedono davanti al finestrino di un'autovettura in movimento). Se il rapporto causa- effetto non è la realtà, ma il modo con cui la percepiamo, eventuali schemi di tipo diverso, magari inimmaginabili per noi. avrebbero potuto essere realizzati. .Anche restando nell'ambito di uno schema causale, perché un essere possa avere una struttura mentale finalistica, è necessario che egli sia in grado: a) di capire che una sua azione nella realtà può indirizzarne il corso; b) prefigurare ciò che potrà avvenire; c) scegliere tra più ipotesi possibili quella che interessa: d) agire per determinarne l'accadimento.

L'essere realizzato dallo stregone possiede tutte queste caratteristiche.

E' agevole a questo punto osservare che il modo d'essere finalistico, sia come schema d'interpretazione della realtà, sia come struttura che determina il modo d'agire, è adatto ad una entità che sia stata creata con il preciso scopo di realizzare il progresso. (Anzi non si riesce ad ipotizzare uno schema più funzionale per tale scopo).

Conclusione

Per ciò che si è detto non è assurdo pensare, ma costituisce un'ipotesi plausibile, che l'uomo sia

stato costruito per il progresso.

Le sue caratteristiche appena descritte (inappagamento, imperfezioni, numero elevatissimo di

individui, capacità di godere di premi e predisposizione al finalismo) sono proprio quelle che noi

stessi attribuiremmo ad un essere cui volessimo far velocemente percorrere la strada del progresso.

E' evidente che l'ipotesi, proprio perché tale, non può essere accolta senza ulteriori dimostrazioni.

Ne' si vuole nascondere il problema fondamentale, che consiste nella possibilità che tutto quanto è

avvenuto sia avvenuto "per caso".

Quando si afferma: c'è stato il progresso, quindi il progresso era voluto, si dice qualcosa di diverso

dal semplice: c'è stato il progresso, quindi il progresso era possìbile.

Se. dopo che la massaia ha rovesciato a casaccio la borsa della spesa sul tavolo, la confezione di

burro finisce tra le arance e la carne, un osservatore parziale potrebbe ritenere che la spesa sia stata

sistemata secondo un rigoroso ordine alfabetico e potrebbe in base a ciò sviluppare articolate teorie

sull'identità della massaia e sui fini perseguiti dalla stessa.

L'osservatore sbaglierebbe perché non si sarebbe posto il problema della verifica, che, nel suo caso,

sarebbe dovuta avvenire controllando se dopo la carne si rinvenivano i dadi per il brodo.

Per ciò che riguarda la nostra ipotesi, dobbiamo porci analoghe domande: "L'angolo di osservazione

di cui disponiamo è. spazialmente e temporalmente, abbastanza ampio da negare che ciò che

vediamo sia casuale?"   "Quando possiamo avere un ragionevole grado di certezza che ciò che

consideriamo una prova lo sia?"

Dobbiamo anche cercare di comprendere, per poterlo negare, cosa sia il caso e dobbiamo superare

l'obiezione secondo cui le prove che partono dall'osservazione della realtà sono "serpenti che si

mordono la coda'", in quanto con i ragionamenti "a posteriori" si finisce per sostenere che tutto ciò

che è avvenuto non poteva non avvenire e lo si considera prova di sé stesso.

In questo ed altro consisterà il lavoro che adesso incominciamo.

Non è superfluo chiarire che l'idea dell'apprendista stregone, avendo adempiuto allo scopo di farci

pervenire ad un'ipotesi, deve essere ora completamente abbandonata. Non si deve pensare che la

teoria del progresso ipotizzi l'esistenza di una divinità pasticciona. E' evidente che tale idea è stata

un'escamotage conoscitivo, necessario per mettere in moto la macchina del pensiero.

 

 

2

LA TEORIA DEL CAMPO RISTRETTO

(o della preesistenza dei risultati)

Eppure sono sicuro che

sotto gli occhi

abbiamo già tutti gli elementi per capire

Il metodo del presente lavoro ricalca quello seguito da Darwin: partire dall'osservazione della realtà e raggiungere le conclusioni che essa suggerisce.

Le teorie di Darwin suscitarono scalpore, pur basandosi su quanto era sotto gli occhi di tutti, perché gli esseri umani a volte non vedono ciò che hanno dinanzi.

Nel nostro caso, prima di passare ad osservare la realtà, è necessario compiere un passaggio ulteriore, in quanto l'applicazione del metodo scientifico alla ricerca filosofica, deve necessariamente porsi, in un ambito prescientìfico, il problema della propria giustificazione. (Ciò che ci interessa è solo il segmento della catena di giustificazioni, che immediatamente precede la teoria, dando per scontate resistenza dell'essere, l'esistenza del pensiero, la rispondenza di esso alla realtà esterna e le altre questioni che. pacifiche in apparenza e per il senso comune, sono giustamente dibattute e problematiche nella storia del pensiero).

Il problema da porsi è: i segnali che raccoglieremo per verificare l'ipotesi formulata sono significativi?

Le prove che troveremo sono valide?

Dieci viaggiatori siedono ogni giorno in un autobus. Se la loro collocazione è assolutamente casuale, il viaggiatore A si troverà seduto accanto al viaggiatore B una volta ogni nove. Le probabilità che A sì trovi seduto accanto a B due giorni consecutivi sono una su 81 e le probabilità che la vicinanza casuale si ripeta tre giorni di seguito sono una su 729.

Ciò significa che se l'autobus compie 729 viaggi con gli stessi passeggeri, rispettando le probabilità A e B si troveranno vicini tre giorni di seguito.

Supponiamo che un osservatore. desideroso di studiare i rapporti tra i frequentatori di quell'autobus, salga sul mezzo proprio quei tre giorni ed ignori il numero totale dei viaggi.

Il primo giorno, vedendo A vicino a B, ipotizzerà che gli stessi possano aver scelto di stare vicini; il secondo giorno la sua ipotesi diventerà una forte probabilità ed il terzo praticamente una certezza. L'errore dell'osservatore consiste nel non aver tenuto conto della propria ignoranza intorno al numero dei viaggi e del fatto che questa circostanza può vanificare qualsiasi osservazione. (Ove i viaggi fossero infiniti, anche la vicinanza di A e B ripetuta milioni di volte potrebbe essere casuale).

.Anche noi ignoriamo quanti tentativi abbia fatto la realtà, per giungere all'uomo e per realizzarlo nel modo che noi conosciamo e che abbiamo detto fortemente predisposto al progresso. Valutando il numero delle stelle in cui tali tentativi potrebbero essere avvenuti (non riusciamo neppure   a contarle), è del tutto legittimo affermare che. osservando la realtà, potremmo trovarci nella condizione di chi studiava i personaggi dell'autobus.

E' noto il paradosso della Divina Commedia, secondo cui se lanciassimo in aria infinite volte un numero di lettere pari a quelle che la compongono, tutte le combinazioni possibili si realizzerebbero ed anch' essa si comporrebbe per caso.

Ma esiste una chiave per uscire da questo paradosso ed è il tempo.

Anche se non sappiamo quanti lanci di letterine sono finora avvenuti o quanti viaggi l'autobus ha fatto, conosciamo l'ambito entro cui tutto si è verificato.

 

Sappiamo che il tempo, in cui ci muoviamo e che percepiamo, per la sua intrinseca struttura non è

infinito e che le regole che possono valere per l'infinito, non hanno valore nel tempo.

Sappiamo da quanti miliardi di anni esiste l'universo. Questo numero non è affatto infinito ed è

chiaramente incompatibile con gli eventi che si sono verificati in esso. Perché la Divina Commedia

della luce, dello spazio, della materia, dei pianeti e   delle stelle si componesse casualmente, non

potevano bastare quindici o venti miliardi di anni, ma c'era bisogno di numeri enormemente

superiori, prossimi all'infinito.

Con grado di certezza ancora maggiore, conosciamo il tempo che ha avuto a disposizione

l'evoluzione sulla terra, per passare dagli organismi unicellulari all'uomo e possiamo analogamente

dire che esso non era sufficiente (anzi era del tutto, evidentemente ed incontestabilmente.

incompatibile), con la creazione casuale delle forme di vita che esistono.

Chi volesse utilizzare il tempo della vita di un uomo, di una stella o di una galassia, per far

realizzare un evento le cui probabilità sono prossime all'infinito, si troverebbe nella condizione di

chi voglia vuotare il mare con un secchiello da spiaggia.

Adottando invece la "teoria del campo ristretto", il tempo appare struttura perfettamente congrua ed

adeguata, creata apposta per realizzare uno scopo prefisso.

La teoria del campo ristretto consiste nel ritenere che il dominio del caso sia limitato all'ambito in

cui avvengono i tentativi, ma non investa quello in cui si determinano i risultati.

Quando si compongono le parole crociate, la ricerca del significato giusto non avviene in un ambito

infinito, ma nell'ambito ristretto delle caselle predisposte e solo in quanto tale è possibile.

In tale contesto, se ignorassimo qual è il vocabolo di quattro lettere che indica un elemento gassoso

e volessimo lanciare in aria tutte le lettere dell'alfabeto, vi sono probabilità concrete che. nel tempo

di cui disponiamo, si formi la parola ARIA.

Se non vi fossero né schema, né definizione predisposta, e dovessimo lanciare in aria le lettere per

formarli e, al tempo stesso, per ottenere la parola che vi si attaglia, il tempo diventerebbe strumento

inadeguato.

Usciremmo dall'ambito della probabilità, sia pure infinitesimale, per entrare in quello della

possibilità puramente astratta o prossima all'infinito.

Ciò significa che i risultati devono preesistere alla ricerca.

La ricerca può anche avvenire per caso, ma il risultato di essa non può essere casuale, per non essere

del tutto impossibile in una realtà che strutturalmente vive in funzione e misura di un tempo, avente

particolari caratteristiche di limitatezza.

Non è possibile che, per caso, nascano vita, movimento, intelligenza, nello spazio di pochi milioni o

miliardi di anni. Una soltanto di queste realizzazioni sarebbe probabilisticamente impossibile, se

affidata al caso, tutte insieme non sono soltanto impossibili, ma costituiscono un evidente segnale

della preesistenza dei risultati.

Preesistenza dei risultati vuol dire che essi erano, prima dei tentativi, mere potenzialità e che i

tentativi stessi, muovendosi intorno ad essi, non hanno il compito di inventarli, quanto di scoprirli.

Se nell'essere vi è la possibilità della vita, il caso non deve inventare le molecole e la loro

aggregazione e, attraverso tale combinazione, inventare qualcosa che per caso sia vita e per caso si

ponga in relazione con altri esseri casuali che ne siano, sempre per caso, estrinsecazione concreta

(possibilità di riuscita   prossima all'infinito). Se nell'essere vi è la potenzialità della vita, il caso

deve scoprire gli esseri che possono fruirne, creando il maggior numero possibile di aggregazioni

molecolari (probabilità di riuscita esprimibili in termini di gradi numeri, ma compatibili con il

tempo di cui effettivamente disponiamo).

Preesistenza dei risultati significa che vi è una materia, una realtà, che tende alla luce, alla vita, al

movimento, all'intelligenza, una realtà che quanto meno intuisce che tali sue possibilità possono

emergere dal non essere.

A titolo di ulteriore esempio, si può dire che la persona che, nel buio assoluto, tasti lo spazio intomo

a sé per ritrovare gli occhiali, ha possibilità di riuscita solo se. in qualche modo, sa che gli occhiali

esistono e sono nei pressi.

Tale fatto rende accettabili i suoi tentativi, racchiudendoli in un ambito ristretto.

 

Preesistenza dei risultati vuol dire esistenza di una preordinazione, una divinità, un'entità assoluta,

alla quale riferire una volontà, un progetto o quanto meno una ricerca, uno sforzo

Significa che vi è un percorso prestabilito (possibile), che può essere denominato Progresso.

L'osservazione della realtà fornisce un altro argomento a conferma di queste conclusioni.

Se due specie viventi hanno un elemento in comune, ciò significa che esse hanno un progenitore

comune oppure che hanno seguito vie evolutive parallele.

I mammiferi, i pesci, i rettili, gli insetti sono tutti in possesso della vista. Le loro strade evolutive si
sono tuttavia divise milioni di anni fa. allorché il progenitore comune si trovava ad uno stadio di
sviluppo minimo e non era in possesso della vista.

L'antenato dell'uomo e della mosca, nella catena evolutiva, era un organismo semplice (unicellulare?) e non poteva aver già sviluppato facoltà sofisticate come la vista o l'udito. Un'affermazione contraria, ponendo sullo stesso piano il livello di evoluzione di milioni o miliardi di anni fa con quello attuale, sarebbe del tutto incompatibile con i contenuti sostanziali della teoria

evolutiva.

Ciò significa che le specie hanno scoperto ciascuna per proprio conto la vista nei rispettivi percorsi

evolutivi.

Se volessimo difendere la teoria del caso, dovremmo a questo punto sostenere che la stessa

improbabilissima   combinazione (è più facile comporre per caso la Divina Commedia che

combinare gli elementi utili a realizzare   il miracolo della vista) non solo si è verificata, ma si è

verificata innumerevoli volte, sempre identica a se stessa.

E' ben più agevole e logico ritenere che la vista sia stata "scoperta" da molti esseri, perché

preesisteva alla scoperta (era sul loro percorso) e perché il caso, se esiste, opera solo all'interno di

in un campo ristretto.

Qualcuno potrebbe obiettare che stiamo ripetendo l'errore dell'osservatore di tre giorni, in quanto

non possiamo escludere che la realtà, prima della nostra esistenza, abbia già fatto infiniti tentativi,

raggiungendo il numero di probabilità prossimo all'infinito, necessario per la casualità della

creazione.

Abbiamo sostenuto che l'universo esiste da venti miliardi di anni: ciò potrebbe esprimere solo la

nostra ignoranza in ordine a ciò che vi era prima del "Big-bang". Se l'Universo si espandesse e si

contraesse periodicamente, passando da una forma di massima espansione ad una di completa

contrazione, ricominciando poi ad espandersi con una nuova esplosione, ciò potrebbe, essere già

avvenuto infinite volte ed esisterebbero, a nostra insaputa, i numeri per rendere compatibile con il

caso qualsiasi coincidenza. Allo stesso modo la Terra potrebbe essere l'unico, tra un numero di

pianeti pari ad infinito - x, sul quale si sono manifestate contemporaneamente le coincidenze della

vita e dell'intelligenza, con la conseguenza di rendere arbitraria qualsiasi conclusione logica che si

volesse desumere dagli elementi osservati.

Finché ignoriamo "il numero dei viaggi", non possiamo compiere nessuna affermazione.

A chi volesse, ad esempio, sostenere che se l'essere avesse compiuto infiniti tentativi, non

potremmo non accorgercene, perché esisterebbero infinite realtà, che non potrebbero non percepirsi

l'una con l'altra, come una folla in una piazza gremita, si potrebbe rispondere che. allorché si

realizzano infinite possibilità, deve realizzarsi anche quella, improbabilissima, dalla quale non è

percepibile nessuna delle altre e che noi potremmo trovarci proprio in essa.

Ma il tempo, che abbiamo indicato come via per risolvere il problema, non è solo un fatto

quantitativo.

Esso è la misura dell'evoluzione in corso.

Finché ad evolversi sono esseri parziali e limitati, il tempo di cui dispongono, quale che sia il loro

numero, non potrà che essere, come essi sono, parziale e limitato (e quindi del tutto incompatibile

con numeri infiniti o prossimi all'infinito).

E' un errore considerare il tempo come un contenitore entro cui siano immerse le cose.

II tempo è una proprietà dell'essere ed è interno a ciascun essere.

Pensiamo ad una freccia lanciata verso l'alto ed alla forza che essa ha in sé e che le permette di andare avanti, di "durare" (e di trasformarsi durante la sua esistenza, interagendo con altre entità).

 

Questa forza è il "tempo" della freccia.

Quando la forza si esaurisce, il tempo finisce e la freccia ricade.

Ogni entità ha un suo tempo, una sua durata.

La forza vitale che fa durare (vivere) un individuo per ottanta anni o una stella per milioni di anni è

il tempo di queir individuo e di quella stella.

Non esiste altro tempo al di fuori dell'individuo, della stella o di qualsiasi altra realtà esistente.

Se un individuo muore, il tempo continua ad esistere basandosi sulla vita degli altri. Se tutti gli

uomini scomparissero, il tempo continuerebbe ad esistere, basandosi sugli animali, sulle piante o

sugli esseri inanimati, anche se, in quest'ultimo caso, nessuno sarebbe più in grado di accorgersi di

esso.

Ma se scomparisse l'ultimo atomo dell'universo e non esistesse più nulla, anche il tempo non

esisterebbe più, si dissolverebbe, dimostrando la sua incapacità di esistere prescindendo dall'essere.

Il tempo, non solo non può esistere indipendentemente dall'essere, ma deve esistere e configurarsi

allo stesso modo di esso.

L'essere, finché l'evoluzione è in corso, esiste nella parzialità. Non è un essere unico ed intero,

"parmenideo". ma è spezzettato in un numero innumerevole di parti, le quali, anche se di numero

elevatissimo, sono ciascuna limitata e finita.

Pertanto anche il tempo, attenendo ad entità limitate e finite, sarà tale.

Esso sarà anzi la misura della loro limitatezza.

Nessuna parte che partecipa al discorso evolutivo è infinita o prossima all'infinito.

Pertanto nessuna parte, sia anche essa universo o insieme di universi, può disporre di un tempo

infinito o prossimo all'infinito, bensì disporrà di un tempo limitato, nel quale non sono possibili

tutti i tentativi che teoricamente si possono ipotizzare e nel quale, pertanto, è possibile individuare,

con l'osservazione e l'applicazione del discorso della probabilità, i confini tra volontarietà e caso.

Il tempo è limitato per qualsiasi entità.

Come la vita di un uomo è insufficiente per realizzare tutto ciò che un individuo può essere (ogni

scelta, ogni passaggio dalla potenzialità all'atto indirizza il percorso in una sola direzione e riduce il

numero delle possibilità successive , che all'inizio erano teoricamente molte di più), così la vita di

una stella è insufficiente a consentire la vita di tutti i pianeti possibili e la vita di un pianeta

insufficiente a far nascere tutte le possibili forme di vita.

Il tempo è sempre insufficiente, perché è strutturalmente tale, indicando la misura della parzialità e,

quindi, della limitatezza di ciascun essere.

Il tempo sarà meno limitato solo quando l'evoluzione avrà raggiunto gradini più alti, creando esseri

più prossimi all'infinito.

Allo stato attuale, se la nostra percezione della realtà non è del tutto errata (il discorso che stiamo

svolgendo affronta il problema delia validità delle prove da raccogliere e non i dubbi cartesiani che

possono essere a monte di esse), nessuna delle entità che esistono, sia singolarmente, sia considerate

nei loro insieme, dispone di tanto tempo, prima di morire (dissolversi, scomparire), da poter

realizzare tutte le potenzialità che teoricamente contiene in sé.

 

LA TEORIA DEI CENTO BIG-BANG

L'essere contemplava se stesso e dalla contemplazione traeva gioia. Egli era ogni creatura ed ogni

cosa,   dall'infinitamente   piccolo,   in   un   cielo   nel   quale   gli   atomi   erano   stelle   giganti.

all' incredibilmente grande, in un mondo nel quale le galassie costituivano molecole di corpi

smisurati.

Spaziava dalla materia all'antimateria, in infinite dimensioni, nelle quali ogni possibilità, ogni

minima variante era stata realizzata.

E tutto ciò era unificato nella medesima coscienza, era libero di sentire ogni parte di sé ed ogni parte

era l'intero.

Ma la gioia dell'essere non era completa.

Egli capiva che non poteva esistere senza essere stato creato e che non poteva essere stato creato

senza un proprio atto di volontà, che avrebbe dovuto essere abbastanza forte da spezzare

l'opposizione del non essere.

E capiva che. se non fosse riuscito a tanto, tutto quello che egli era non sarebbe mai stato, sarebbe

stato ingoiato dal nulla senza poter vantare neanche la sua attuale esistenza, poiché ciò che non è

sempre non è mai stato.

Allora, per un attimo, l'essere nella sua pienezza convisse con il non essere in altrettanta totalità ed

entrambi erano e nessuno dei due era e il mistero di ciò era comprensibile solo per essi.

Poi l'essere esplose in una prima forte volontà di esistenza, in uno o forse cento Big-bang.

scagliando nel nulla eterno sfere di fuoco, espressioni del suo desiderio di prevalere.

In quel momento ebbe inizio il tempo.

La materia aveva una velocità spaventosa, una massa ed un calore altrettanto formidabili e. da essi.

nacque la luce, che fu il primo oltraggio, la prima sconfitta per il non essere.

L'essere voleva essere se stesso ed illuminare le sue creazioni, ma, in quel tempo, non aveva ancora

occhi per vedere.

Questi vennero molto tempo dopo, quando la prima fase della lotta primordiale si era svolta ed

erano nate le galassie, le stelle, i pianeti.

L'essere, allora, aveva come nemico solo il non essere e possedeva intatto il ricordo di sé.

Per questo quella lotta terribile fu vinta in un tempo relativamente breve.

Più tardi, il nemico peggiore per l'essere sarebbe stato l'essere stesso, la sua ignoranza di sé, che lo

spingeva a combattersi da solo.

Da nessuna parte dell'universo, o in tutti gli universi riuniti, esisteva ancora la coscienza.

L'essere si muoveva come una persona nel buio.

Non avendo coscienza, ma intuendo quale fosse il compito da realizzare, moltiplicava il più

possibile le stelle ed i pianeti, per aumentare le sue possibilità di riuscita.

Così la vita, anche se avesse avuto una possibilità di essere scoperta su miliardi di miliardi, doveva

nascere ed infatti nacque.

Nel numero era il segreto della ricerca dell'essere. Egli sapeva che la coscienza, l'intelligenza, il

libero arbitrio, erano possibili perché erano parti di sé e. per scoprire dove il non essere li aveva

nascosti, moltiplicava i suoi tentativi.

Creò, con molti "little big-bang'" specie vegetali ed animali, con il collo lungo e con i piedi piatti.

grandi, medie, piccole, capaci di nuotare e di volare, capaci di andare ovunque.

Era evidente che le singole specie emergevano secondo un progetto.

L'essere non sapeva, ma cercava di ricordare.

Era sicuro di poche cose, ad esempio dei fatto che la possibilità di godere della luce fosse

fondamentale, perciò quasi tutte le creature avevano occhi per vedere.

Infine, quando il numero delle specie create fu tanto alto da superare la soglia della probabilità.

nacque l'uomo.

L'uomo era, per l’essere, una grossa realizzazione, perché assommava in sé tutte le capacità ed i requisiti necessari per assumere il compito di guidare la successiva evoluzione. Al punto in cui si era, il procedere per tentativi   non poteva dare altri frutti, aveva prodotto il massimo ed era riuscito a farlo in tempo.

Per il futuro. 1'evoluzione poteva essere solo cosciente oppure non sarebbe più stata. L'essere poteva ora solo moltiplicare il numero degli uomini, perché ciascuno di essi desse il suo contributo e perché qualcuno potesse capire.

Miliardi e miliardi di uomini, ognuno dei quali si sforzava, sentendo in sé la scintilla dell'essere, di comprendere i perché e, anche quando non comprendeva, inconsciamente sapeva che bisognava andare avanti, bisognava scoprire, inventare, migliorare. Ma quando la soglia della probabilità fu superata? Intanto, il nemico peggiore era comparso.

La coscienza dell'essere era spezzata in miriadi di esseri singoli, ognuno dei quali credeva di essere già il Tutto.

In ognuno di essi era viva la spinta dell'essere, l'anelito a progredire fino alla completa realizzazione di sé, fino ad essere il Tutto finale ed ognuno pensava di poterlo essere da solo o tramite la sua discendenza, che sembrava poter essere infinita.

Ognuno identificava l'altro essere che era intorno a lui con il non essere e lo combatteva. Sorse così il pericolo che l'essere potesse distruggersi da solo e questo pericolo aumentava via via che l'uomo si impadroniva dei mezzi, che avrebbero dovuto aiutarlo ad unirsi agli altri e ad evolversi.

L'energia atomica, che doveva riscattarlo dalla fatica del lavoro, dargli tempo per pensare e per organizzare come meglio proseguire la sua corsa, fu usata per distruggere, divenne un'arma. Il non essere rischiò, per la prima volta, di vincere.

Se l'uomo si fosse distrutto da solo, quante altre probabilità avrebbero dovuto essere create per poterlo sostituire? E ve ne sarebbe stato il tempo? Il tempo era un altro grosso problema.

L'essere intuiva che il tempo non era infinito, sapeva che doveva agire in fretta e che non erano consentiti passi falsi.

La sua lotta con il non essere era anche una corsa, per arrivare in tempo. Per questo lo sforzo della creazione era stato così imponente e frenetico. Il tempo era un fattore che giocava a favore del non essere.

Allo stesso modo, si rischiò di perdere ancora, quando l'uomo, superato il pericolo dell'auto­distruzione   o   meglio   vivendo   in   bilico   sopra   di   esso,   fu   preso   dalla   tentazione dell"autocontemplazione, stornando in tale direzione la sua naturale carica teleologica. Ciò che egli possedeva, bastava a far sì che vivesse bene.

Ognuno continuava a credere di essere il Tutto, ma. invece di progredire, preferiva gioire di se stesso, anche se questa gioia era vuota ed inconsistente. Un'altra partita decisiva fu giocata.

Se la specie che doveva assumere su di sé la responsabilità della sopravvivenza e del cammino dell'essere avesse deciso di fermarsi e di rispecchiarsi narcisisticamente nei beni che aveva prodotto, cosa sarebbe successo?

Ma non tutti gli uomini erano allo stesso punto di evoluzione: l'essere conservava alcune carte di riserva.

Molte nazioni avevano a che fare con problemi diversi e potevano raccogliere il testimone lasciato da altri.

Forse poi avrebbero essere stesse incontrato lo stesso problema allo stesso punto... E dopo fu il super uomo ed il pianeta vivente, la galassia cosciente, l'universo, il Tutto.. o forse no, forse fu di nuovo il nulla. Questa storia deve essere ancora scritta.

Spiegazione della "parabola"

La teoria dei "cento big-bang" è un'altra premessa, utile per la migliore comprensione dei "dieci

argomenti". Tornando alla metafora iniziale, secondo cui avevamo il problema di spiegare cos'è una

sfera partendo da una visione puntiforme della realtà, possiamo dire che l'ultima teoria esposta ci

aiuta a passare dal particolare al generale, alla visione d'insieme.

Essa dovrebbe far allargare la mente del lettore verso l'immagine finale che vogliamo fornire, creare

una traccia di luce, che aiuti a vedere i contorni di un disegno e, al tempo stesso, fornisca uno spazio

entro cui il disegno possa essere realizzato.

Nei suoi contenuti, la teoria introduce lo schema generale di interpretazione della realtà che stiamo

proponendo, la chiave di lettura di tutto ciò che è intorno a noi.

Ciò si può riassumere nel concetto, secondo cui la realtà non è altro che la lotta tra un'entità ed una

non entità (essere e non essere), è uno sforzo di emersione dell'essere dal non essere.

Tutto ciò che avviene, sia nel cosmo che nella vita dei singoli individui, fa parte di questa lotta, di

questo sforzo, e può spiegarsi in base ad esso.

E' il non essere (la stasi, il nulla) che devo affrontare quando compio una qualsiasi attività fisica o

mentale, quando scrivo una poesia ("la materia è sorda all'intenzione dell'arte"), costruisco un

oggetto o semplicemente sento sopra di me il peso intangibile dell'esistenza.

E' il non essere che ingoia ogni mia manifestazione, appena essa giunge sulla scena della vita, e la

trasforma in passato, cioè non essere; è il non essere che si riappropria di me, con la morte, non

appena il mio slancio vitale si è esaurito, cercando di cancellare il più rapidamente possibile le

tracce della mia esistenza.

La vita è lotta, perché è sforzo di emersione dal non essere; essa si svolge continuamente a contatto

con il nulla, che tende a riassorbirla non appena può.

In un momento futuro dell'evoluzione, allorchè la vita abbia strappato al nulla uno spazio maggiore.

si può ipotizzare che il tempo non sia più puntiforme (un solo attimo di realtà, circondato dal non

essere del passato e del futuro), ma abbia uno spessore maggiore.

Avremo allora (per noi queste realtà non sono facilmente immaginabili) la contemporanea esistenza

di un individuo così come è adesso e così come era. ad esempio, un minuto fa. Non esisteranno due

individui, ma uno solo, che fruirà di   uno   spazio temporale maggiore,   sarà un individuo

temporalmente più complesso di quelli attualmente esistenti, non disporrà di un solo respiro' di

tempo, ma di una breccia maggiore aperta, sotto questo profilo, nel non essere. Portando avanti il

discorso, si può ipotizzare che, quando il non essere non vi sarà più, l'essere disporrà di tutto il

proprio tempo, nella sua pienezza e, solo allora, potrà essere tutto sé stesso.

Tornando alla teoria dei big-bang, possiamo compiere qualche ulteriore osservazione.

Vi è una realtà, per noi incomprensibile, costituita dal rapporto primordiale e sostanziale tra essere

e non essere. Noi percepiamo lo sforzo di emersione, perché siamo dentro di esso, e percepiamo

altresì che vi è una lotta, vale a dire che il risultato non è scontato, che può determinarsi evoluzione

(trionfo dell'essere) o de-evoluzione (trionfo del non essere), nonché percepiamo che tutto ciò

dipende anche da noi, ma non comprendiamo come sia possibile che l'essere preesista a sé stesso o

che vi sia un "tempo" in cui l'essere non esista nella sua pienezza, se è destinato a realizzarsi in

essa.

La teoria del progresso non pretende di fornire risposta a queste domande, limitandosi a rilevare

che, se fino ad oggi più l'evoluzione è andata avanti, più è aumentato il livello della comprensione

della realtà da parte degli esseri che la stavano compiendo, è verosimile ritenere che. proseguendo il

cammino evolutivo, diverranno possibili anche le risposte che oggi non lo sono.

La teoria enunciata serve altresì a descrivere quanto sia forte la volontà dell'essere di esistere e di

progredire, tanto che essa si manifesta attraverso "esplosioni".

Il Big-bang, misterioso scoppio dal quale ebbero origine, secondo lo stato attuale delle nostre

conoscenze, le galassie, non ne è il solo esempio.

Da quando l'uomo osserva le specie animali e vegetali, moltissime di esse sono scomparse e poche

(artificialmente, per effetto dell"attività umana), si sono determinate ex novo. Nel passato, la

situazione doveva essere diversa, in quanto in spazi di tempo relativamente brevi sono nate tutte le

forme che conosciamo.

Secondo attendibili teorie, che, visti i fossili, fanno i conti con i tempi dell'evoluzione, vi è stato.

ne! corso del cammino evolutivo, un momento in cui numerose specie sono contemporaneamente

apparse come per effetto di una "piccola grande esplosione".

Se avessimo assistito al grandioso spettacolo dell'esplosione primordiale, con il quale il non essere

fu squarciato dalla volontà di esistenza di materia, energia e luce o fossimo stati presenti il "giorno''

in   cui     migliaia   di   specie   nuove   e   diverse   contemporaneamente   fiorirono   sulla Terra,

comprenderemmo meglio quale forza, quale enorme volontà esista nell'essere.

Questa forza non è solo "desiderio di vita", ma è anche, soprattutto, volontà di evoluzione.

La volontà che è nell'essere e che l'osservazione della realtà evidenzia, non è statica, ma tende

prepotentemente a progredire.

Non è casuale che le alghe in sette giorni occupino la metà del laghetto e, nel corso dell'ottavo,

l'intero: la velocità della volontà di progresso è esponenziale.

Un altro aspetto che è opportuno sottolineare è l'unità del Tutto.

Ciò non significa solo che un filo continuo lega ogni evento ed ogni frazione di realtà esistente e

che l'evoluzione, dall'origine dei mondi e poi della vita, non si è mai interrotta, ma significa anche

che ogni essere esistente è una manifestazione dell'unica ed identica realtà.

Le differenze tra gli esseri sono reali perché la realtà attuale è una realtà di divisione e di non essere,

ma, al tempo stesso, sono solo apparenti, perché sono destinate ad essere riassorbite man mano che

si compia un ulteriore cammino di evoluzione (come in un disegno che venga scoperto a poco a

poco e del quale solo alla fine si comprenda che raffigurava un unico oggetto).

Ad un attento lettore non sfuggirà il fatto che, mentre alcune affermazioni contenute nella "Teoria

del Progresso" sono oggetto di scrupolosi tentativi di dimostrazione, altre restano del tutto

in dimostrate.

Ciò è effetto del metodo di lavoro scelto: ci si sforza di dimostrare le teorie che fanno parte del

discorso base (validità dell'osservazione della realtà come fonte di prova, analisi degli elementi che

da essa si ricavano), ci si astiene da ciò, per quelle che vengono definite premesse, in quanto esse

vogliono solo fornire un angolo di visuale in base al quale sia   più agevole la comprensione del

discorso.

(In realtà, le premesse anticipano le conclusioni: conoscendo il punto di arrivo, diviene più. facile

comprendere il cammino attraverso cui vi si perviene).

 

 

L'EVOLUZIONE PER TENTATIVI

il "come" dell'evoluzione

La dinamica della realtà è stata descritta come lotta tra un'entità, che abbiamo definito essere, ed una non entità, definita "non essere'" ed è stata in particolare individuata come sforzo di emersione dell'essere dal non essere.

L'esistenza dell'essere non è in discussione, neppure nella filosofia. Sin dai dubbi di Cartesio si è     ammesso che esiste "qualcosa" e che di questo qualcosa noi partecipiamo.

Ugualmente non è dubbia l'esistenza del non essere, secondo la coscienza comune.

Infatti tranquillamente affermiamo, nei nostri discorsi, che una cosa non è o non c'è, dimostrando

di ritenere possibile ed acquisita la categoria del non essere.

Nella storia del pensiero, l'esistenza del non essere non è altrettanto pacifica. Ad esempio Fichte,

in "Fondamenti della dottrina della scienza", sostiene che l'io infinito pone egli stesso opposizione

a sé, nel suo attuarsi.

Secondo questa interpretazione, non vi sarebbe un non essere che ostacoli il dispiegarsi dell'essere,

ma l'essere stesso si opporrebbe a sé, contenendo due volontà antitetiche.

La scelta dell'uno o dell'altro modello meriterebbe maggiori approfondimenti.

Volendo limitarsi ad un'indicazione sintetica degli argomenti che avvalorano la tesi dell'esistenza

del non essere, si può dire che, se il non essere non esistesse, non esisterebbe il divenire, perché

l'essere sarebbe pienamente se stesso e, quindi, sarebbe immutabile; non esisterebbero nemmeno lo

spazio ed il tempo, perché l'essere sarebbe continuo; non sarebbe possibile l'autocoscienza dei

singoli individui con il riconoscimento, da parte loro, dell'alterità e di ciò che essi non sono, perché

l'essere sarebbe unico e completamente consapevole di sé; non sarebbe possibile l'esistenza delle

parti, le quali, poiché non sono il Tutto, nel momento stesso in cui sono qualcosa non sono

qualcos'altro e. quindi, presuppongono la categoria del non essere..

Il non essere è un non stato, logicamente possibile anche prescindendo dall'esistenza dell'essere.

L'esistenza dell'essere, oltre a dare ad esso dimensione reale, a renderlo immaginabile e visibile, gli

fornisce precise caratteristiche, attribuendogli, in negativo, le proprie (che il non essere da solo non

potrebbe avere, non essendo altro che negazione di entità).

Ad esempio, il non essere in sé non potrebbe mai agire, ma, poiché l'essere agisce, può divenire

agente attraverso la non azione. (Un fatto può essere conseguenza di un'azione o anche del suo

opposto. Ad esempio la scomparsa di una specie può essere attribuita al non essere, può

astrattamente qualificarsi come una sua azione, pur essendo, in realtà, la non continuazione di

un'azione dell'essere).

Il non essere è una non entità, un non stato, è la negazione assoluta che precede logicamente l'essere

e che deve essere attraversata e superata, perché l'essere possa affermare sé stesso.

Nel compiere il cammino evolutivo, cioè nell'attraversare la barriera del non essere per pervenire

all'esistenza, alla vita, all'intelligenza, l'essere non possiede a priori le facoltà cui perviene.

Le possiede come potenzialità, ma deve tradurle in atto.

Cerca la luce quando si trova nel buio, cerca la vita attraverso la non vita (aggregati casuali di

amminoacidi o di basi azotate), l'intelligenza allorché esistono solo specie non intelligenti (infiniti

tentativi nel mondo animale e vegetale, prima di raggiungerla).

Ciò significa che. quando l'essere cerca la coscienza, non la possiede e che pertanto l'evoluzione.

prima dell'esistenza dell'uomo, non poteva che essere cieca.

L'essere, nel suo emergere dal non essere, è privo di conoscenza e consapevolezza: tende a sé, ma

non sa cosa vuole essere. Il "modo" dell'evoluzione è convulso, irrazionale, ripetitivo, frutto di

sforzi e progetti   lanciati in tutte   le   direzioni,   come   se   l’essere fosse una persona che,

nell'incoscienza del sonno, tenti di liberarsi dì pesanti tele che la coprano.

L'evoluzione non è lineare (non esiste una catena delle specie logica e continua, i dinosauri non

avevano niente da invidiare, quanto ad organizzazione biologica, alle specie attuali,     essi

costituivano un fatto evolutivo completo, che è stato sostituito, piuttosto che superato, da altre

forme), l'uomo non segue la scimmia per necessità e non discende da essa, bensì è un tentativo

diverso, che l'essere, appoggiandosi a tutti i tentativi precedenti e valendosi di essi, prova a

realizzare, per realizzare se stesso ed ottenere piena consapevolezza di se.

Possiamo definire l'evoluzione avvenuta fino a questo punto, senza la coscienza e sulla base del

numero, moltiplicando gli sforzi in ogni possibile direzione, "evoluzione per tentativi".

L'evoluzione per tentativi spiega la contemporanea esistenza, nella realtà, di finalismo e casualità,

in quanto il primo è determinato dalla volontà di esistenza dell'essere e dal fatto che l'essere, sia

pure in modo oscuro, intuisce qual è la strada da percorrere per arrivare a sé ed il secondo è

determinato dal modo in cui ciò avviene, attraverso i meccanismi della casualità, ma entro uno

schema prestabilito, che rende possibile la realizzazione di eventi probabili solo in modo

infinitesimale.

Proviamo ora a leggere la realtà, con lo schema che abbiamo costruito, con una descrizione

necessariamente approssimativa, ma esemplificativa ed utile ai fini conoscitivi, che ci proponiamo.

Per il secondo principio della termodinamica, l'universo tende verso l'entropia, cioè verso la

scomparsa delle forme, il disordine, il caos, la perdita di informazione, l'uniformità.

Volendo tradurre ciò in termini filosofici, potremmo dire che l'universo tende verso il non essere.

L'entropia-non essere è ciò che di più compatibile esista con la teoria del caso, vale a dire con la

raffigurazione della realtà secondo cui tutto avviene per caso e, se vi è qualcosa che sembra

costruita con uno scopo o per effetto di una volontà/ciò è frutto di una mera combinazione.

Se per mera combinazione è stata creata la Divina Commedia, essa, secondo una teoria

"termodinamica" d'interpretazione del reale, dovrà tendere rapidamente a scomparire, ad essere

riassorbita, perché la composizione più probabile (e tendenzialmente finale) che deve esistere, si

identifica con l'entropia.

Vi sono tuttavia aspetti della realtà, che sembrano ignorare il principio enunciato.

Se contrapponiamo il momento confusionale dell'esplosione primordiale all'universo attuale, che è

in espansione e presenta un altissimo grado di determinazione, oppure la non vita di milioni di anni

fa e e la vita che oggi c'è sulla Terra, o infine le strutture sociali dell'uomo delle palafitte e le

strutture della tecnologia moderna, dobbiamo riconoscere che l'ordine, la determinazione delle

forme, la conoscenza, sono avanzate   e che quindi, l'entropia, su tutti questi fronti, si è rivelata

sinora perdente.

Volendo escludere che ciò sia avvenuto "per caso", l'unica alternativa logica è supporre che .vi sia

un principiò che, avendo caratteristiche del tutto opposte ad essa, si opponga all'entropia.

Questo principio è l'essere, con la sua volontà.

E' l'essere l'entità che si oppone all'entropia ed ha il compito titanico di bilanciare e soverchiare la

forza gigantesca che tende a far sì che ogni cosa sia o si trasformi in nulla.

La realtà è 1 effetto di una lotta tra un essere, che vuole la propria esistenza ed un non essere che lo

contrasta, ponendosi come fattore di resistenza passiva di fronte ad ogni iniziativa dell'altro.

Questa lotta, dall'avvento dell'uomo in poi. può non essere più inconsapevole, ma valersi degli

strumenti della consapevolezza e dell'autocoscienza (dal momento in cui l'uomo la comprende e la

fa propria). 

 


I DIECI ARGOMENTI

(Dieci argomenti per dimostrare che scopo dell'uomo -e non solo dell'uomo- è il progresso)

 

NB: il documento originale è andato perduto. Il lettore perdonerà qualche piccolo “vuoto” nella ricostruzione operata

Nel corso delle premesse è stato affermato e si deve ritenere dimostrato, sulla base delle argomentazioni ivi espresse, che non si può ritenere senza limiti che le coincidenze siano frutto del caso, ma che anzi esse, quando superino la soglia della probabilità, possono essere ritenute indizi di una volontà o di una preordinazione (intese l*una e l'altra nel senso più volte chiarito, di volontà cieca e preesistenza dei risultati).

Possiamo pertanto esaminare alcune coincidenze e porci il problema del loro possibile significato, con l'idea che, qualora più coincidenze suggeriscano le medesime conclusioni, le stesse possano ritenersi avvalorate e possano dar fondamento ad una teoria.

1) IL NUMERO DELLE SPECIE E DEGLI INDIVIDUI

Ignoriamo quale sia il numero delle galassie e non .riusciamo a contare quante siano le stelle.

Allo stesso modo vediamo che le specie viventi, se non incontrano ostacoli esterni, tendono a

moltiplicare il numero dei loro individui, fino a popolare tutta la Terra e. se fosse possibile,

innumerevoli Terre.

Vi è un meccanismo che tende a far replicare all'infinito ogni cosa, dalla realtà inanimata (galassie,

stelle, pianeti), al mondo vegetale ed animale (ciascuna   specie e, all'interno di esse, i singoli

individui).

Il fatto che vi sia un parallelismo, nel modo di porsi e di svilupparsi, tra le galassie e le felci o tra le

stelle e gli ippopotami, non può non essere considerato un indizio importante, che si trae

dall'osservazione della realtà.

Essendo una coincidenza tanto diffusa, dobbiamo escludere che essa possa essere casuale.

Per caso, lo sviluppo dei pianeti poteva essere animato dallo stesso principio che vige per lo

sviluppo delle tribù del Nuovo Messico o dei canguri australiani, ma quando il parallelismo è tanto

diffuso, la spiegazione casuale deve essere messa da parte, si deve ritenere che vi sia un perché e si

deve cercare di identificarlo.

Il principio che anima tutta la realtà, diviene più evidente nelle specie viventi, perché si propaga ai

singoli individui: il parallelismo è doppio, perché la stessa forza che tende a moltiplicare i mondi,

moltiplica le specie e la stessa forza che moltiplica le specie, moltiplica gli individui di ciascuna di

esse.

Se volessimo indicare tutto ciò con un disegno o con un grafico, troveremmo in esso molta armonia

di linee e forme, quell'armonia che. superato il problema dell'ampiezza dell'angolo di osservazione.

è del tutto incompatibile con il caso.

Ragioniamo sul possibile significato del numero.

Numero equivale a tentativi; quando personalmente ricorriamo al numero, stiamo cercando di

raggiungere un risultato e vogliamo cautelarci contro la possibilità di non conseguirlo oppure

assicurarci la maggiore quantità possibile di probabilità di successo.

Se. dovendo lanciare freccette sul bersaglio, con l'obiettivo di colpire il centro, oppure dovendo

trovare il jolly in un mazzo di cane girate sul dorso, desideriamo aumentare le nostre possibilità di

successo, chiediamo dì poter fare più tentativi.

Allo stesso modo, se volessimo assicurarci il maggior numero possibile di probabilità di far nascere

la vita presso una stella, sapendo che ciò avviene una volta su "n" e fossimo in grado di costruire le

galassie, ne creeremmo miliardi; se desiderassimo far nascere l'intelligenza su di un pianeta.

 

sapendo che si tratta di una fatto importante ma improbabile, essendo in grado di creare le specie, he

formeremmo miliardi; se pensassimo che, in una specie intelligente, vi è la probabilità   che un

singolo individuo compia un atto o comprenda una realtà importante, faremmo nascere infinite

generazioni.

Pertanto, la risposta più ovvia alla domanda sul perché la natura replichi mondi e specie è che essa

sta tentando di raggiungere un risultato.

Per ciò che è stato affermato in ordine alle coincidenze, possiamo dire che se la natura si comporta

mille, diecimila, un milione di volte come se cercasse di raggiungere un risultato, ciò significa che

sta cercando di raggiungere un risultato.

Il modo in cui i tentativi sono concatenati tra loro indica con uguale chiarezza quale sia il risultato.

Galassie, pianeti e specie sono legati tra loro da una concatenazione, perchè ogni risultato pone i

presupposti per un risultato ulteriore, che li giustifica uno in funzione dell'altro.

Perché replicare le galassie? Per aumentare la probabilità di pianeti sui quali sia possibile la vita.

Perché aumentare la probabilità di pianeti sui quali sia possibile la vita? Perché in essi possano

nascere specie intelligenti. Perché creare tanti individui intelligenti? Perché uno di essi possa

scoprire il fuoco o la ruota, ecc.

I numeri della realtà universale tracciano una mappa che può essere tranquillamente letta in

funzione di un risultato globale da perseguire, un risultato che può indicarsi con il termine

progresso.

Nella storia dell'uomo, in particolare, sembra esservi una precisa programmazione del numero in

funzione del risultato.

Dopo che per centinaia di migliaia di anni anche per l'uomo è valsa la regola della moltiplicazione

al massimo coefficiente possibile degli individui, ora le società più sviluppate tendono     a

raggiungere la crescita zero o sottozero.

In effetti il numero, necessario per la continuazione della specie fin quando imperano povertà,

mortalità infantile, malattie, ecc.. non lo è più quando tali fenomeni sono superati e diviene anzi un

handicap per il raggiungimento di un progresso maggiore.

A questo punto, come se nella realtà dei fatti e nella mentalità delle persone che la rappresentano

fosse inserito un orologio a tempo, la società assume comportamenti idonei ad eliminare la

millenaria regola della moltiplicazione all'infinito degli individui.

Non è difficile utilizzare tale argomento come prova della strumentalità del numero e del rapporto

che lega lo stesso al risultato evolutivo da conseguire.

Così come, una volta trovato il jolly, perdo interesse ai tentativi ulteriori, ai quali   avevo ancora

diritto, per dedicarmi al percorso successivo, nel quale la carta trovata deve essere utilizzata, così.

quando tende a perdere la sua utilità, il numero viene abbandonato, facendo presupporre una

preordinazione»(di possibilità e di ricerca) nell'intera realtà, in funzione del progresso.

E' importante guardare alla realtà dell'uomo come al momento in cui si determina una svolta nella

storia dell'evoluzione, poiché, con lui, essa può finalmente divenire consapevole.

2) L'ESISTENZA DEL DOLORE

A differenza delle entità inanimate, che non provano nessuna sofferenza anche se vengono divise a

metà, l'uomo avverte dolore per ogni sua minima menomazione.

Egli avverte dolore anche per effetto delle malattie che lo affliggono o per il malfunzionamento di

qualsiasi sua parte (oltre che per afflizioni di carattere psichico).

La reazione più normale ed immediata dell'uomo alla sofferenza, consiste nella ricerca dei rimedi.

tanto da creare un binomio, nel quale il dolore si pone come causa ed il rimedio come effetto.

Nessun rimedio sarebbe mai stato cercato (e trovato) se non fosse esistito il dolore, con 'la

conseguenza che tutto ciò che è derivato dall'attività di ricerca dei rimedi, deve essere ugualmente

considerato effetto del dolore.

La medicina è figlia del dolore e pertanto ad esso devono ricollegarsi tutte le conquiste che essa ha

ottenuto.

Senza il dolore, non avremmo mai compreso il funzionamento del corpo umano e. verosimilmente,

saremmo vissuti con una vaga conoscenza della posizione degli organi interni, senza arrivare

neppure ad immaginare l'esistenza del D.N.A. e le possibilità dell'ingegneria genetica.

E' stato detto che, se vi fosse stata abbondanza di cibo, l'uomo, evolutivamente parlando, non

sarebbe mai sceso dagli alberi. Allo stesso modo può dirsi che, se vi fosse stata insensibilità al

dolore, l'uomo ancora oggi sarebbe sugli alberi della completa ignoranza anatomica e funzionale di

sé.

Grazie alla medicina, gli uomini oggi non vivono venti o trent'anni, ma più di settanta. In uno

spazio di tempo maggiore, hanno la possibilità di realizzarsi maggiormente e, attraverso la propria

realizzazione, possono realizzare in misura maggiore il progresso. Hanno migliorato la propria

alimentazione, sconfiggendo bisogni primari, che impedivano di guardare oltre; hanno creato

società evolute, che sono state in grado di proiettarsi verso impensabili conquiste.

Tutto ciò è avvenuto grazie al dolore.

Con questo schema interpretativo, è possibile dare un senso ad ogni sofferenza. Se l'uomo soffre.

ciò significa che non sono stati compiuti ancora abbastanza sforzi, in quel campo, che non è stato

ancora capito e sconfitto il cancro, che non si è ancora stati capaci di creare la pelle che non si

ferisce o l'osso che non si spezza, che non si sono ancora risolti i problemi psichici legati alla

mancata realizzazione dell'uomo, il quale meriterebbe di vivere il modo diverso, con maggiore

spazio, tempo e possibilità di realizzazione di tutto ciò che ha in sé.

Il dolore è un indicatore: perché dice che c'è ancora molta strada da percorrere ed indica la direzione

di essa.

Più il dolore è forte, diffuso tra molteplicità di individui e fonte di gravi sofferenze, più la spinta ad

imboccare la direzione che lo risolve è forte e chiara.

Se consideriamo che non c'è una malattia del passato che non sia stata sconfitta e non ce n'è una

del presente che non si creda di poter sconfiggere, aumentando gli sforzi ed utilizzando un congruo

lasso di tempo, dobbiamo ritenere che il dolore non è mai sterile o fine a sé stesso, ma è una spinta

verso il progresso.

Ogni volta che è stato sconfitto un "dolore", l'uomo ha conseguito, oltre alla vittoria immediata su

di esso, anche il risultato netto di nuove conoscenze e nuovo potere, utilizzabili in molteplici altre

forme.

E' facile concludere che   un'interpretazione finalistica del dolore non solo è possibile, ma anzi

evidente e che il dolore è un preciso "indicatore di direzione", indispensabile per far camminare

l'uomo sulla strada del progresso.

Il fatto che la vecchiaia e la morte siano realtà che provocano gravi sofferenze all'uomo può quindi

far ipotizzare che anch'esse un giorno saranno sconfitte e che il progresso deve tendere al loro

superamento.

La "coincidenza"' per la quale il dolore provoca progresso, per la sua estensione, non può essere

considerata casuale, ma deve interpretarsi come indicatore del fatto che la realtà tende al progresso e

si serve del dolore per perseguirlo.

 

 

3) LA SPROPORZIONE TRA DESIDERI E REALIZZAZIONI POSSIBILI

Secondo Tolstoj, l'eterno errore commesso dagli uomini è quello di credere che la felicità consista nella realizzazione dei loro desideri.

Simili concetti sono stati frequentemente e mirabilmente espressi dalla letteratura ("O natura.

natura, perché non rendi poi ciò che prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?")

Ad essi corrisponde un concetto di comune buon senso, per il quale l'uomo è comunque condannato

a rimanere insoddisfatto. Niente lo appaga veramente, se non per un tempo molto breve; ad ogni

risultato raggiunto corrisponde una nuova ansia di   conquista ed in ogni bene ottenuto c'è

quantomeno una punta di delusione.

E' come se la realtà, nel suo complesso, fosse inadeguata alle nostre attese oppure come se,

nell'uomo, vi fosse una molla che lo spinge ad andare sempre avanti e gli impedisce di fermarsi a

rimirare, soddisfatto, i risultati che ha ottenuto.

L'uomo non può fermarsi.

La stasi è regolarmente accompagnata da un senso di inutilità e di inappagamento.

Vi è in lui un meccanismo identificabile nella sproporzione, qualitativa e quantitativa, tra i desideri

ed i risultati, che lo spinge a proseguire sempre il suo cammino.

I desideri dell'uomo possono porsi su vari livelli, ma se si volesse identificare il loro limite

superiore, non sarebbe possibile fermarsi prima di aver raggiunto quello che non è il limite del

singolo individuo, quanto il limite di tutto Tessere nel suo insieme.

Non si può impedire ad un singolo di desiderare di essere il Tutto o qualsiasi cosa Tessere possa

realizzare o milioni di cose insieme. Non si può negare che il singolo possa desiderare di essere

l'essere parmenideo.

Ciò significa che, quanto ai desideri o alle possibilità di essi. l'individuo si può identificare con il

tutto, mentre, nella sua realtà, né è infinitesimale frazione. Se tanta è la sproporzione tra desideri e

risultati, essa potrà cessare solo allorché l'uomo arrivi ad essere il Tutto (o completi la propria

partecipazione ad un processo che è iniziato e finirà molto al di là di lui).

La sproporzione tra desideri e realizzazioni è un segno che l'uomo è destinato a compiere un lungo

cammino e che. pertanto, il suo scopo è il progresso.

4) LA VOLONTÀ' DI POTENZA DI OGNI SPECIE

Ogni specie animale o vegetale che conosciamo, avendone la possibilità, si moltiplicherebbe fino ad

occupare tutta la Terra, cancellando o sottomettendo ogni altra specie (impresa perfettamente

riuscita all'uomo).

(Si pensi all' introduzione dei conigli in Australia, ove, trovando un ambiente favorevole, essi si

moltiplicarono in modo assolutamente imprevisto, divenendo una minaccia per l'agricoltura o alle

alghe che occupano in poco tempo un intero lago oppure   ai germi di malattie epidemiche,   che

invadono organismi tanto più grandi di loro, nel numero massimo possibile).

Ogni specie ha in sé quello che potremmo definire "l'istinto del progresso" (moltiplicarsi, andare

avanti verso un obiettivo in proiezione identificabile con il Tutto) ed anzi questa è la sua più

evidente caratteristica.

Considerando ciò. si ha l'impressione che non vi sia bisogno di complicate deduzioni per

comprendere quale sia lo scopo dell'essere: ogni individuo lo porta scritto in sé ed ogni specie lo

declama in modo evidente con i suoi comportamenti.

Se non fosse stato ancora "inventato" l'uomo. lo scopo di tutto potrebbe non essere comprensibile.

Che senso avrebbe, se specie sempre più evolute cercassero di sovrapporsi l'una all'altra, se nessuna

di esse fosse capace di far derivare da ciò un risultato ulteriore?

Con l'uomo, anche l'osservatore meno attento, al quale il passaggio dalle specie marine a quelle

terrestri o dalle specie immobili a quelle capaci di muoversi, non suggeriva alcuna idea sulle

evoluzioni future, non può evitare di immaginare la possibilità che l'evoluzione sia portata fuori

degli esseri che la rappresentano, che essa sia un fatto oggettivo, che riguarda tutta la realtà e che

può portare a realizzazioni che diano un senso e rendano globalmente comprensibile tutto ciò che

è.

Osservare la vita delle scimmie e poi vedere accanto ad esse l'astronauta che parte per la missione

lunare, è un fatto idoneo a far esclamare a chiunque che 1"evoluzione esiste ed a fargli immaginare

che essa possa conseguire     altre vertiginose conquiste, nell'ambito delle quali le maggiori

acquisizioni   di benessere e gli esseri stessi che le conseguono   non siano il fine ultimo, perché il

progresso è una realtà ulteriore, che cammina ma non si identifica con essi.

5) L'ARGOMENTO DI DARWIN

"Per questo sono certo che la teoria della discendenza con modificazioni si estende a tutti i membri di una stessa classe. Io credo che gli animali discendano al massimo da quattro o cinque progenitori e le piante da un numero di progenitori uguale o inferiore. L'analogia mi porterebbe ancora ad un passo avanti, cioè mi indurrebbe a credere che tutti gli animali e tutte le piante discendano da un unico prototipo. Però l'analogia può essere una guida fallace. Ciononostante tutti i viventi hanno molto in comune, nella composizione chimica, nelle vescicole germinali, nella struttura cellulare. nelle leggi che governano lo sviluppo e la riproduzione. E' una cosa che osserviamo anche in casi insignificanti, come nel fatto che certe volte uno .stesso veleno agisce sia sugli animali che sui vegetali; oppure nel fatto che il veleno secreto dal cinipe produce mostruose formazioni di galle tanto su una rosa selvatica quanto su una quercia.

Per questo ne dedurrei per analogia che probabilmente tutti i viventi che siano mai vissuti sulla terra discendano da una sola forma primitiva nella quale la vita è stata primieramente infusa.*" (Darwin. l'Origine delle specie).

Se i viventi hanno caratteristiche in comune, si può presumere che le abbiano ricavate dai loro

comuni progenitori.

Ciò presuppone, tuttavia, che i progenitori le avessero.

L'evoluzione avrà riguardato altre caratteristiche, diverse da quella comune, che sarà stata ereditata

senza particolari modificazioni.

Ma se le due specie, che presentino analoghi elementi, siano tra loro molto lontane, tanto da avere

un progenitore comune solo nelle forme primordiali, come si potrà credere che lo stesso fosse in

possesso dell'elemento comune, appartenente alle forme successive, specializzate ed evolute?

Darwin individua analogie, per tutti i viventi, "nella composizione chimica, nelle vescicole

germinali, nella struttura cellulare, nelle leggi che governano lo sviluppo e la riproduzione.."

Ciò significa che il prototipo originale doveva avere composizione chimica, struttura cellulare e

leggi del tipo che appartengono agli attuali viventi.

Ma se. per trovare antenati comuni a. tutti,   dobbiamo risalire ad organismi unicellulari o di poco

superiori, come è possibile che essi possedessero, in potenza o in atto, tali elementi?

La potenzialità, infatti, non dovrebbe riferirsi ad una mera possibilità di sviluppo, che non

giustificherebbe l'identità di svolgimento delle due forme distaccate, ma ad un'intrinseca esistenza

della potenzialità, quale quella di un albero in un seme, al possesso, pur non ancora manifesto, di

tutto il patrimonio genetico manifestato dai discendenti (impossibile, per ciò che conosciamo delle

entità iniziali).

Prendiamo, ad esempio, la facoltà di vista.

Essa è comune a molte forme viventi, del mare, della terra e del cielo e ciò significa che è possibile

farle risalire tutte ad un unico progenitore, il quale era già munito di essa.

Trovare un antenato comune dell'uomo e della mosca significa risalire alle prime distinzioni e

specializzazioni delle forme viventi, ad esseri primordiali che non avevano ancora attuato le stesse.

Com'è possibile credere che essi fossero muniti di occhi?

 

Se si dovesse ritenere che l'antenato possedesse già tutti gli elementi base delle successive

specializzazioni, dovremmo affermare che non è il punto di partenza, bensì quello di arrivo

dell'evoluzione. Ma ciò non è. perché esso si configura effettivamente come il punto di partenza.

elementare ed assolutamente non specializzato del successivo sviluppo. Ma, in tal caso, come si

spiega che esseri diversi, che percorrevano differenti percorsi evolutivi, siano attualmente tutti

muniti di occhi? La teoria delle "coincidenze", non può essere seguita, perché ritenere che più

specie, in differenti cammini evolutivi, abbiano separatamente "inventato" gli occhi e la vista,

presenta un grado di probabilità analogo a quello che più studenti, chiusi in stanze diverse, abbiano

contemporaneamente   composto,   ciascuno   per   proprio   conto   e   senza conoscerla, la "Divina

Commedia".

Allora, poiché non è possibile che l'uomo e la mosca abbiano gli occhi perché li aveva un

progenitore comune e poiché non è possibile che, ciascuno per proprio conto, li abbiano rinvenuti

nel cammino casuale della selezione naturale e poiché invece li hanno, deve esistere un'altra

possibilità.

La soluzione più logica è ritenere che le varie specie non si siano mosse nell'assoluto infinito del

caso, vale a dire in un ambito nel quale la vista era una combinazione di elementi analoga a

qualsiasi altra, che per caso era possibile e per caso serviva a qualcosa, ma in un ambito più

ristretto, nel quale la vista esisteva come possibilità da scoprire ed in cui. proprio perché esisteva.

poteva essere scoperta.

La vista,   come   l'intelligenza o   la   sensibilità artistica,   erano possibilità inserite nel percorso,

come in una "caccia al tesoro", nella quale i partecipanti devono trovare ciò che gli organizzatori

hanno predisposto'e non si trovano nell'infinito mito possibile del caso, che per legge di probabilità

porta facilmente al nulla, ma in uno schema nel quale esiste la probabilità concreta che la ricerca

venga premiata. Se. avendo a disposizione un numero di lettere uguale a quello che compone la

"Divina commedia", potessimo lanciarle in aria un numero infinito di volte, avremmo, insieme ad

infiniti altri testi, un infinito numero di divine commedie scritte in modo corretto. Ma il tempo non è

infinito e,   in particolare,   non è infinito il tempo trascorso tra l'inizio della vita sulla terra ed il

momento in cui le specie Sono nate ed hanno assunto le rispettive caratteristiche, tra cui la vista. La

probabilità che, mescolando gli elementi dell'essere e lanciandoli metaforicamente in aria, la facoltà

della vista venisse scoperta da una sola specie è così piccola, da non potere, non solo realizzarsi, ma

neppure essere immaginata. A maggior ragione è del tutto impossibile che   il fenomeno si sia

verificato più volte e per più specie. La teoria dell'ambito ristretto è l'unica possibile.

La vista è stata scoperta perchè poteva esserlo. Preesisteva, come possibilità, alle specie che

dovevano scoprirla ed era accessibile al loro cammino.

La ricerca è avvenuta (almeno apparentemente) con i meccanismi della casualità, ma il suo risultato

non è frutto del caso.

Ciò significa che c'è un cammino prestabilito (quanto meno nella forma della possibilità).

determinato da qualcosa che esistendo (almeno come possibilità) non si identifica con il caso.

C'è. al di là dell'ambiente naturale, che determina l'adattamento degli individui e la selezione

naturale, un ambiente più vasto, che è quello delle possibilità dell'essere, di ciò che l'essere ha la

potenzialità, almeno astratta, di realizzare.

In questo ambiente, come in un percorso guidato (che salva dall'infinito negativo della casualità), si

collocano le conquiste dell'evoluzione, quali la vista, la mobilità o l'intelligenza, Se fossero state

soltanto possibili, in base al caso, non solo sarebbero state prive di significato, una volta ottenute.

perché del tutto irrilevanti rispetto alle domande di valore, che l'uomo si pone, ma non sarebbero

affatto avvenute, perché probabilisticamente impossibili nel mare del caso assoluto.

Il fatto che più esseri abbiano, indipendentemente l'uno dall'altro, acquisito la vista, dimostra che

l'uomo ha un cammino da percorrere e che questo cammino ha un significato.

6) L'ARGOMENTO DELLA STORIA

E' innegabile che l'uomo abbia finora percorso e stia ancora percorrendo la strada del progresso.

Se si potessero confrontare i comportamenti e lo stile di vita degli scarafaggi di un milione di anni

fa e dell'epoca attuale, non si noterebbero sostanziali differenze. Al contrario la situazione

dell'uomo è in continua evoluzione, le sue condizioni attuali differiscono, non solo da quelle di

mille anni fa, ma anche da quelle di cento o venti anni fa.

Assumendo   indici rivelatori quali la durata della vita, la vulnerabilità alle malattie, l'orario di

lavoro,   la possibilità di movimento, la conoscenza e la comprensione della realtà, il potere, la

possibilità di godere di una porzione maggiore di libertà ed autodeterminazione, la possibilità di

superare la violenza, si deve riconoscere che la differenza consiste in un miglioramento, in un

progresso.

(Alcuni degli indicatori proposti non danno adito a dubbi. E' ad esempio evidente che nel passato o

nei Paesi che ancora oggi sono arretrati, la mortalità infantile era maggiore e che averla ridotta

costituisca un passo in avanti. Più discutibili possono apparire altri indicatori, in quanto non

mancherà chi sostenga che nell'era attuale gli individui siano meno liberi, più violenti o

condizionati, che non in passato. Se tuttavia la discussione si svolgerà serenamente, non sembra

difficile dimostrare che negli anni tra il 1950 ed il 2000 gli abitanti dell'Europa occidentale, che

costituiscono il termine di riferimento più significativo del Progresso, abbiano avuto, in media, le

più alte possibilità di vita mai determinatesi, tanto che, anche se si trascurasse la media, ma si

dovesse scegliere tra essere re nel medio evo ed impiegato nell'epoca attuale, non   pochi

preferirebbero questa seconda eventualità.)

Non mancano, nella storia, periodi di crisi, assestamento o apparente regresso, ma, nel complesso.

dall'epoca delle caverne ad oggi, la vicenda dell'uomo è consistita in un continuo progredire,

concretamente identificabile nella continua acquisizione di maggiore conoscenza e maggior potere.

Ciò ci induce a credere che il futuro debba presentare analoghe prospettive, poiché il miglior modo

per cercare di comprendere cosa accadrà, è guardare a ciò che è già accaduto.

Ma l'argomento a favore del progresso, che si trae dalla storia, non è una semplice previsione di

continuità, quanto un esame di coincidenze.

In ogni momento della vicenda umana, progresso e regresso erano entrambi possibili.

Spesso il "regresso" era impersonato dagli uomini stessi, che spendevano la propria vita e si

battevano per esso (ad esempio, con le invasioni barbariche o allorché i conquii statori islamici

distruggevano la biblioteca di Alessandria, sostenendo che se i libri ivi contenuti dicevano le stesse

cose del Corano erano inutili, se cose diverse erano dannosi, oppure quando un idiota. invidioso di

uno scienziato, uccideva quest'ultimo o bruciava i suoi appunti).

Il fatto che il progresso, infine, sia sempre risultato vincente, è una "coincidenza" che si è ripetuta

con costante regolarità.

Non è affatto probabile che la specie più intelligente debba prevalere sulla specie più forte, la razza

più progredita su quella più barbara o l'individuo più evoluto su quello più rozzo. (Non vi è

capitato, nel corso della vostra esistenza, di essere battuti da persone più stupide, più ignoranti o

meno creative di voi?).

Eppure, di fatto, attraverso le "'contorsioni'" dell'evoluzione (si veda: "L'evoluzione per tentativi"),

ciò è avvenuto, vale a dire, quali che fossero le vicende delle persone e delle specie,   alla fine si è

sempre realizzato un risultato netto di maggior progresso.

Ci deve essere una forza che è al di là degli individui singoli o delle specie, che lottano ognuno per

se in modo cieco, senza porsi affatto il problema del progresso, e che fa pendere l'ago della bilancia

dalla parte del progresso.

La storia è un continuo ripetersi della coincidenza del verificarsi del progresso.

Possiamo considerare ciò casuale?

Non è vero che. se un individuo più intelligente lotta con uno meno intelligente di lui. sia destinato

sicuramente a prevalere. Neppure può dirsi che gli individui più intelligenti si riproducano meglio e

in maggior numero rispetto a quelli meno intelligenti.

Anzi, la realtà sembra dimostrare l'esatto contrario.

I ragazzi più dotati intellettivamente, spesso sono più fragili, sia fisicamente, che psicologicamente.

desìi altri.                                           .                                           .                                         ..,

Nelle lotte quotidiane, la forza, l'intrigo, la parzialità di terzi ed il caso determinano i risultati più

delle doti del singolo.

Le persone (o i popoli) più ignoranti e meno evolute tendono ad avere un numero di figli ben

maggiore di quelle più colte e progredite. (In Italia la crescita demografica è sotto zero, in

Afganistan ogni donna ha, in media, più di otto figli).

Se tutto ciò è vero ed era vero anche in passato, vi è difficoltà a spiegare come mai la storia

dell'umanità sia caratterizzata dal progresso, invece che dal suo opposto.

Nelle lotte tra popoli, ogni volta che si affrontavano civiltà raffinate ed evolute come quella greca e

rozze come quella romana, era ben più probabile che prevalessero quelle che si trovavano a livello

di quest'ultima.

Noi siamo abituati (darwinianamente?) a considerare la vittoria dell'individuo, del popolo o della

specie più progredita come l'evento più probabile che possa avvenire, ma questa convinzione non

resiste ad un'analisi di probabilità.

Le probabilità di sopravvivenza di una specie sono legate in maggior misura a grandi eventi casuali.

come la capacità di resistere ad una malattia o ad una modifica ambientale (scomparsa dei

dinosauri?) più di altre, che non alle doti di maggior evoluzione già raggiunte.

Nella lotta tra popoli, specie o individui, fattori casuali, di pura forza o ambientali giocano

oggettivamente ruoli più importanti che non la maggiore intelligenza o evoluzione.

(Einstein in lotta contro un rapinatore armato si trova in condizioni simili a quelle in cui si trovava

un uomo delle caverne quando affrontava una tigre preistorica: chi prevarrà?).

Se il progresso non era probabile ed è invece innumerevoli volte avvenuto, si deve concludere che

innumerevoli volte si è ripetuta l'improbabile prevalenza dell'evento meno probabile.

Letta in questo modo, la storia diviene un serbatoio di rivelazioni sulla preesistenza di un cammino

di progresso e sulla necessità di percorrerlo, o almeno sull'esistenza di una forza, insita non solo

nell'uomo ma in tutta la realtà e la sua struttura (il suo modo di essere), che spinge verso il

progresso.

Questa forza è tale da alterare il normale gioco di probabilità, per il quale il progresso non avrebbe

dovuto avvenire, ma. ad ogni epoca, avrebbe dovuto seguire una diversa, con una diversa

distribuzione di fattori ed un totale di situazione evolutiva pressocchè uguale.

Se l'elemento che decide il passaggio dal dominio di una specie ad un altra fosse il caso, il fatto che

la specie successiva risultasse più evoluta della precedente dovrebbe essere puramente casuale e non

dovrebbe ripetersi più di quanto si ripeta il fenomeno contrario.

Dovremmo avere un'epoca dominata dai dinosauri ed una dominata dagli scarafaggi senza che

questi ultimi possano dirsi più evoluti dei primi, in un susseguirsi che, attraverso varie alternanze.

dovrebbe lasciare, anche dopo milioni di anni, immutato il livello di evoluzione esistente.

Se invece individuiamo una catena evolutiva, nella quale ogni essere ha qualcosa in più di quello

che lo precede, non possiamo non credere che ciò sia dovuto all'esistenza di una forza, che alteri il

normale gioco delle probabilità.

L’affermazione di Darwin secondo cui la specie c                                           è quella più adatta, identifica come

fattore decisivo per la sopravvivenza le modifiche e non il livello di evoluzione raggiunto.

(Tra Leonardo da Vinci e una spigola, sopravvenendo un’inoldazione, sopravvive la spigola.

La storia, com                 di probabilità successiva a mig.                                       -vioni. dovrebbe dimostrare

l' assoluta ca               ;va e non, come invece dimostra, la co..                           " "evoluzione).

 

 

  7) LA VOLONTÀ' DI REALIZZARSI DEI SINGOLI INDIVIDUI.

  Il concerto di "realizzazione" è nel linguaggio corrente.

Quando una persona dichiara di volersi "realizzare'", intende dire che si è resa conto di avere

determinate potenzialità ed avverte la necessità di consentire che esse si traducano in atto.

Trasformare le potenzialità in realtà è un'esigenza profonda dell'essere.

Avere la capacità astratta di correre, ballare, dipingere, cantare o volare e non farlo, significa sentirsi

irrealizzati, insoddisfatti, infelici. Realizzare le proprie capacità vuol dire il contrario. Questo

concetto non ha bisogno di essere dimostrato: è scritto nella nostra realtà, allo stesso modo in cui è

scritto che bisogna fuggire il dolore e ricercare la felicità.

La regola per cui è necessario realizzarsi, non riguarda solo gli esseri umani, bensì tutti gli esseri

che possono dimostrare le proprie tendenze, vale a dire i viventi.

Ognuno di essi cerca, con tutte le sue forze, di realizzarsi (ad esempio una pianta cerca di esprimere

tutta la propria possibile forza vitale) ed è felice (nel modo in cui ciascuno può esserlo), quando vi

riesce. (Si pensi alla differenza tra una belva in cattività ed un cavallo che corre libero nella

prateria).

Sulla base dell'osservazione della realtà, non è arbitrario affermare che la necessità della

realizzazione, la spinta verso di essa, non riguardi soltanto i viventi, ma l'intera realtà, fino a

proporsi come legge strutturale, "codice genetico" dell'essere.

Nel "Big-bang", primordiale esplosione dalla quale ebbero origine le galassie, è possibile vedere

un'enorme esplosione di volontà, tesa alla realizzazione di tutte le potenzialità dell'essere.

.Analogo significato si può dare a quello che alcuni scienziati definiscono "the little big-bang", vale

a dire la contemporanea comparsa sulla Terra, come per esplosione di volontà genetica, di centinaia

di nuove specie.

Tutta la realtà parla il linguaggio della necessità, della spinta verso la realizzazione delle possibilità

dell'essere, indica la stessa come motivo fondamentale del proprio essere e del proprio divenire.

L'osservazione evidenzia che nella realtà sono potenzialmente racchiuse innumerevoli forme (come

in un blocco di marmo prima dell"intervento dello scultore), ma dimostra che esse non si limitano

ad essere teoricamente racchiuse nell'essere, bensì tendono prepotentemente ad emergere ed   a

realizzarsi.

Il parallelismo tra ciò che riguarda i singoli esseri e ciò che riguarda la complessiva realtà

universale, non è limitato alla volontà di realizzarsi (tradurre la propria "potenza" in atto), ma è più

esteso.

Nel sistema universo, si nota coerenza e sistematicità. I meccanismi di funzionamento delle varie

entità si ripetono a livelli diversi e vi è analogia tra quanto succede in ambiti quantitativamente e

qualitativamente diversi (persino tra stelle e formiche), nel piccolo come nell'insieme.

Le galassie, come gli individui e le specie, nascono, raggiungono il culmine e decadono fino a

scomparire; i padri trasmettono ai figli le proprie esperienze e la propria organizzazione di vita, allo

stesso modo in cui una civiltà morente consegna ad un'altra i propri contenuti; ogni cosa è immersa

nel tempo e vede da esso scanditi i propri ritmi: un'entità inanimata impone al mondo esterno il

proprio essere così come un vivente la propria volontà di vita: ogni entità ha la possibilità di

adempiere ad uno scopo prima di scomparire; ogni entità è insieme unica e circondata circondata di

altre simili a lei: l'istinto di sopravvivenza e l'istinto per la riproduzione sono comuni ad esseri

diversissimi tra loro.

Se vi è parallelismo tra gli individui ed il tutto e gli individui devono realizzarsi (sono felici quando

lo fanno), ciò significa che anche il tutto deve realizzarsi (sarà "felice'' quando si realizzerà).
La realizzazione del tutto non può che essere il progresso.

Il progresso è presente nella realtà, come potenzialità che vuole emergere, così come la capacità di
diventare adulto è scritta nel codice genetico di un bambino.

Anche chi neghi che il progresso sia scopo dell'uomo, non può negare che il progresso esista come possibilità dell'essere e, se una possibilità esiste, deve essere realizzata.

(Ciò non significa che tutte le possibilità teoricamente esistenti devono essere realizzate. Questa

eventualità non può essere nemmeno esclusa, poiché noi non conosciamo le dimensioni dell'essere

e le infinite dimensioni in cui si manifesta, ma è innegabile - ed in tal senso è stato posto il

parallelismo- che devono realizzarsi le possibilità che completano, che esplicano ciò che il singolo

sentiva in sé stesso come esigenza di essere e che danno un senso di realizzazione e felicità).

Se il progresso non si realizzerà, resterà nel mondo qualcosa di profondamente incompiuto.

paragonabile al senso di irrealizzazione che albergherebbe dentro un grande pittore, che non avesse

mai potuto toccare una matita o di una potenziale ballerina, privata dell'uso delle gambe.

Verosimilmente è proprio il progresso a creare il parallelismo tra le specie più disparate di esseri e

tra esse e Tessere nel suo insieme, in quanto la realizzazione dei singoli non è un fatto sganciato dal

progresso, ma è inserita nel contesto logico, determinato dallo stesso.

Infatti è proprio la realizzazione dei singoli a determinare non solo il loro personale progresso, ma

anche il progresso complessivo.

Se il singolo non desiderasse vivere, esplorare, inventare, riprodursi, espandersi, conoscere od

acquisire potere, le specie, se pure esistessero, sarebbero ferme alla situazione di milioni di anni fa.

Il progresso è la realizzazione degli individui, che avviene nel quadro della realizzazione del tutto e

che determina la realizzazione del tutto.

La volontà che agisce è sempre la stessa ed il progresso è il risultato cui essa tende.

Il comportamento di tutti gli esseri, sia animati che inanimati, sta ad indicare l'esistenza di una

volontà di essere, di vita e di progresso, che non può essere una mera coincidenza dettata dal caso,

perché, per caso, avrebbero potuto averla solo alcuni di essi. Il fatto che essa sia generalizzata è una

prova   dell'esistenza di   un   cammino,   che   l'uomo   può   intraprendere,   passando   dalla   fase

dell'evoluzione per tentativi ad una fase di evoluzione cosciente e consentendo l'emersione di

quella volontà che è attualmente sommersa ed inconsapevole.

8) LE DIMENSIONI DELL'UNIVERSO

Supponiamo che alcuni degli "schemi mentali'' dell'uomo, non derivino dalla sua specifica

soggettività o   dalla casualità, ma siano conseguenza del fatto che egli è composto della stessa

sostanza (essere) di cui è composta l'intera realtà e del fatto che, per mezzo di essa, egli partecipa a

percorsi ed obiettivi che lo trascendono.

Questa supposizione è più che accettabile, sia perché tutta la teoria del progresso, sin qui delineata.

la suggerisce, sia perchè l'omogeneità tra la struttura mentale dell'uomo e le regole che determinano

la composizione e la vita dell'' universo è dimostrata dalla capacità che il primo ha di studiare e

comprendere le seconde.

Se si volesse ampliare la base giustificativa della supposizione, si potrebbero agevolmente

descrivere infinite analogie che esistono tra i modi di essere e di comportarsi delle più diverse

forme di vita (vi sono analogie anche tra i modi d'essere delle forme animate e di quelle inanimate,

es. stelle e formiche).

Se ciò è vero, è legittimo ipotizzare che il modo in cui L'uomo immagina il proprio rapporto con lo

spazio e con la necessità di utilizzare lo stesso sia uno di questi schemi, inseriti nella "logica

dell'universo", vale a dire che vi sia analogia, tra la maniera in cui l'uomo ragioni sugli spazi e la

maniera in cui "ragioni" l'essere (anzi la prima sia effetto della seconda).

Noi compriamo una casa più grande perché contiamo di avere dei figli, acquistiamo un terreno

attiguo perché vogliamo aumentare la produzione, compriamo un armadio più grande perché

vogliamo inserirvi più vestiti, uno stock di scatole vuote perché abbiamo intenzione di riempirle.

Se l'essere utilizza lo stesso schema, perché ha commissionato come propria casa un universo così

grande?

Perché l'universo è cosi grande e. per quello che sappiamo, così vuoto, fino a questo momento?

Perché l'uomo ha più intelligenza di quella che gli serve?

Perché i numeri sono infiniti?

Perché la realtà si estende in tutte le direzioni " a perdita d'occhio" ? (Sotto di noi vi è

l'infinitamente piccolo, come sopra di noi l'infinitamente grande)

Che senso ha tutto ciò, in relazione al fatto che noi tendiamo a voler conoscere tutto, a voler essere

dovunque?

Perché non dovremmo proiettare in scala universale ciò che è avvenuto finora sulla Terra, ove ogni

spazio, ogni nicchia biologia, è stata accuratamente occupata, ogni mistero svelato o affrontato e

dove si è determinato un costante ed inarrestabile progresso?

Se non vi fosse o non si vedesse uno spazio in cui continuare il progresso, coloro che negano la

necessità dello stesso avrebbero un buon argomento.

Invece l'universo c'è ed è ben visibile, prova macroscopica (come un cartello stradale enorme e

luminoso) che vi è una direzione in cui è possibile continuare il progresso.

Non si può pensare che l'uomo o la realtà che lo seguirà nella storia dell'evoluzione, rinunci ad

affrontarlo ed a cercare di svelarne i misteri, acquisendo, in tale cammino, sempre   maggiori

conoscenze e potere.

9 ) IL FATTORE TEMPO

Ogni entità ha il suo tempo, entro il quale può raggiungere un risultato ulteriore. Ad esempio, una stella vive x miliardi di anni, entro i quali può o non può dar luogo a pianeti sui quali si sviluppi la vita: la specie dei dinosauri vive x milioni di anni, entro i quali può o non può dar luogo ad una mutazione da cui derivi una specie più intelligente: un essere umano vive 70/80 anni, entro i quali può o non può avere dei figli, inventare la ruota o dare altrimenti il proprio contributo all'evoluzione, una pianta o un animale possono vivere anni, mesi o solo ore, entro cui possono svolgere o non svolgere il loro ciclo vitale, raggiungere o non raggiungere il risultato della riproduzione.

Il risultato può essere raggiunto solo nel tempo che la singola entità possiede come proprio: una

volta che esso è trascorso, non può essere più recuperato.

Nessuna vita può nascere intorno ad una stella spenta, nessuna specie intelligente da dinosauri

estinti, nessuna nuova idea da un uomo che non esiste più e che non l'ha concepita mentre era in

vita, nessun frutto e nessun seme da una pianta che il gelo ha bruciato.

Se ora noi siamo qui e svolgiamo questo discorso è perché, in passato, miliardi di volte si è

realizzata la coincidenza del raggiungimento del risultato entro il tempo che ciascuna entità aveva

per conseguirlo.

Osservare queste coincidenze, non solo conforta la teoria della non casualità del mondo, quale esso

è, ma mostra che tutta la realtà è fondata sul binomio tempo-risultati, che ne costituisce una costante

strutturale.

11 binomio tempo-risultati non appartiene solo alla mentalità dell'uomo, non è una conseguenza del

modo che l'uomo ha di vivere e di applicare i propri   schemi   a ciò che lo circonda, è un fatto

oggettivo, sta dentro le cose come gli atomi di cui esse sono composte.

Individuare, nella struttura fondamentale della realtà, una relazione funzionale tra tempo e risultati

non può non indurre a pensare che, oltre ai singoli esseri, anche l'essere nel suo insieme la possieda

( e che anzi i singoli esseri da esso la traggano, l'abbiano proprio perchè l'entità da cui derivano e di

cui sono composti la possiede).

Affermare che è caratteristica fondamentale dell'essere avere un tempo limitato per raggiungere un

risultato, significa enunciare la teoria universale dell'evoluzione e collegare tutti gli anelli della

realtà in un'unica tensione e lotta evolutiva.

Immaginiamo che il sole, tra quattro miliardi di anni, si esaurisca o esploda. Se, per tale data,

l'evoluzione tecnologica raggiunta dall'uomo ( o dall'entità che lo seguirà nel cammino evolutivo)

consenta il trasferimento su di un pianeta di un altro sistema, illuminato da un'altra stella, il risultato

evolutivo sino ad allora raggiunto sarà conservato, altrimenti si perderà. Quando poi sarà la galassia

ad esaurire il proprio tempo, l'uomo ( o chi per lui) dovrà essere in grado di uscirne, avendo

scoperto ed essendo in grado di trascendere le regole che lo imprigionano in essa (velocità della

luce). Allo stesso modo dovrà accadere quanto non esisterà più l'universo o non esisterà più il

tempo, perché allora l'uomo avrà scoperto le leggi del tempo e sarà in grado di dominarle.

Infine, non ci sarà più nulla di quanto noi oggi conosciamo, perché tutto avrà esaurito il proprio

tempo, ma l'uomo, cioè il prodotto finale dell'evoluzione, sarà fuori, sarà emerso, sarà in vita in

tutta la sua pienezza.

Il tempo esprime la forza del non essere.

Il non essere, di cui la morte è espressione, riassorbe tutto ciò che viene ad esistenza, sia che si tratti

di persone che di galassie, cancella tutto ciò che ha avuto la forza di esistere, sia che si tratti di entità

che di azioni, pensieri o ricordi di ciascuna di esse.

Per questo i risultati devono essere raggiunti in un certo tempo, prima che il non essere abbia il

tempo di cancellare l'ambito in cui devono essere scritti.

Per questo il rapporto tra tempo e risultati esiste ed è una costante strutturale della realtà.

10) LA FELICITA'

Il decimo argomento è la felicità.

Che cos'è la felicità? La filosofia tradizionale non lo dice ed è strano che su di un concetto così

importante vi sia non solo scarsità di risposte, ma anche rarità di persone che. nella storia del

pensiero, abbiano ritenuto di dover affrontare il problema.

Supponiamo che l'uomo abbia un ruolo nella dinamica universale dell'essere e, quindi, uno scopo.

In tal caso è intuibile che.   quando compisse azioni che lo avvicinassero ad esso, dovrebbe in

qualche modo avvertire un senso di soddisfazione e di appagamento e quando, invece, compisse

azioni che lo allontanassero, un segno di senso opposto.

 

Se volessimo ancora seguire la teoria dell'apprendista stregone, dovremmo dire che l'apprendista

stesso abbia inserito questo segnale, per dare alla sua creatura un'autonoma capacità di orientarsi

nella ricerca del progresso.

Volendo invece spiegare la realtà con riferimento ai suoi contenuti, dobbiamo dire che. se

l'evoluzione avviene, ciò si verifica perchè l'entità che è base e sostanza di tutto ciò che esiste

fortemente desidera che essa avvenga (la storia universale   è storia della lotta tra una fortissima

volontà di essere ed una formidabile resistenza del non essere).

Se dunque l'essere vuole l'evoluzione, è impossibile che. quando si compiano gli atti giusti perché

essa avvenga, ciò non sia percepito in senso positivo dalle entità che, nella scala dell'evoluzione,

abbiano raggiunto un certo grado di sviluppo e coscienza.

Spiegata in tal modo la natura della felicità e stabilito il collegamento tra essa ed il progresso (è il

modo in cui l'uomo percepisce e partecipa alla gioia dell'essere di vincere la resistenza del non

essere e camminare verso la realizzazione di sé che l'evoluzione comporta), è opportuno chiarire un

ulteriore concetto.

Nell'attuale stadio di evoluzione, caratterizzato dalla divisione dell'unica realtà universale in

molteplici individui singoli, nettamente separati tra loro da spazi di non essere (un giorno anche

questi spazi si evolveranno in essere ed esisteranno entità più evolute, corrispondenti alla somma - o

unità- tra ciò che oggi è un individuo, più altri individui, più l'essere che prima, come non essere, li

separava) ogni individuo esistente crede di essere il punto terminale unico dell'intera evoluzione e,

pertanto, si identifica con il Tutto.

Ciò può alterare la percezione della felicità che egli ha, non perché la felicità sia riferita ad un

singolo individuo e non a tutta la realtà (il che non può determinare alterazioni,   perché stiamo

parlando di felicità proprio come sensazione del singolo di collegamento all'entità generale), ma

perché il collegamento si compie in capo ad un individuo che ha un concetto errato di sé

Si può determinare un paradosso, in quanto un uomo può gioire, cioè godere della gioia che l'essere

ha per la propria evoluzione, anche per un fatto de-evolutivo, quale la distruzione di un altro essere

umano, che magari era importante per il progresso, perchè, riconoscendo sé stesso come l'unico

essere, identifica l'altro come non essere.

Il selvaggio che uccide uno scienziato danneggia l'evoluzione, ma. se è convinto di essere egli

stesso la sola entità che veramente esiste, nel momento in cui l'ucciderà potrà gioire, cioè usufruire

di una facoltà che esiste solo e perché l'essere in sé vuole evolversi ed è felice quando avverte di

essere sulla strada giusta per l'evoluzione.

Se l'essere non fosse capace di tale sensazione, non vi sarebbe motivo per cui gli uomini dovessero

essere capaci di provare felicità: la felicità, ove vi fosse, sarebbe un evento assolutamente

inspiegabile (come di fatto è, nonostante millenni di storia dei pensiero, nel contesto di una cultura

che ancora non conosce la teoria dell'evoluzione).

Fatte queste premesse, si deve ora, per completare il discorso, dimostrare che ogni situazione in cui

gii uomini avvertono felicità è collegata   con l'idea di progresso. (Vi è una spia luminosa, che si

accende ogni volta che camminiamo nella direzione giusta, che è quella del progresso).

Molte sensazioni di felicità sono collegate alla conservazione dell'individuo ed all'appagamento dei

bisogni che gli consentono di continuare ad esistere.

In questi casi, il collegamento con l'idea di progresso è evidente: la conservazione dell'individuo è

indispensabile   perché   egli   possa   adempiere   alla   propria   funzione   nella   storia   universale

dell'evoluzione.

Altre sensazioni di felicità sono collegate alla realizzazione delle capacità che l'individuo ha. al

dispiegarsi, dalla potenza all'atto, delle sue potenzialità e dei suoi talenti.

Anche in questo caso, il collegamento è evidente: il progresso deriva proprio dalla realizzazione dei

singoli, di cui. in senso lato, è la somma e la sintesi finale. Estrinsecandosi in ogni direzione, i

singoli   esplorano tutte le potenzialità dell'essere e moltiplicano la possibilità del realizzarsi di

scoperte e progressi.

La felicità deriva dall'amore.

L'amore è unione. Il progresso finale consisterà nella riscoperta dell'unica natura che anima tutte le

cose e nell'unificazione di esse in un'unica entità totale.

L'amore è intuizione sublime che anticipa questa conclusione del cammino dell'essere.

L'amore è superamento del non essere che divide, isola ed impoverisce ogni entità, è un ponte

gettato sopra il non essere, per annullarne gli effetti.

La felicità che da esso deriva e che è tanto più grande quanto più unisce (senso di solidarietà e di

partecipazione) o fonde insieme (due persone innamorate) più entità, deriva direttamente dal

progresso.

Altra felicità deriva da tutto ciò che. in qualche modo ci perpetua. Es. avere figli, piantare alberi.

scrivere libri, ecc.

E' chiaro che, in tal modo, si partecipa allo sforzo dell'essere di non essere cancellato dal non essere

e dalla morte che ne esprime la forza ed alla gioia di esso di continuare, di lanciare fecce nel futuro

e di continuare la lotta. (La perpetuazione delle specie e dei risultati da esse conseguiti è

indispensabile alla lotta dell'essere per l'evoluzione).

Molta felicità deriva dal 'muovo". Siamo felici ed eccitati quando sperimentiamo nuove sensazioni,

vediamo posti nuovi, inventiamo cose nuove.

La ricerca del nuovo è strettamente funzionale al modo d'essere dell'evoluzione, così come è stato

descritto. (Dalle stelle devono venir fuori i pianeti, dai pianeti le forme di vita, dalle forme di vita la

mobilità, 1"intelligenza, la coscienza, ecc.). Senza la ricerca del nuovo, l'evoluzione finirebbe, gli

individui devono essere esploratori.

La felicità deriva dal possesso di beni.

Più va avanti l'evoluzione, più l'essere può godere di sé stesso e superare i disagi che derivano dalla

sua irrealizzazione. All'entità che esisterà una volta terminato il cammino evolutivo non mancherà

nulla ed essa proverà un completo senso di appagamento e compiacimento di sé.

Il possesso di beni e la comodità che ne derivano anticipano queste sensazioni. Inoltre, il mettere dei

beni al servizio di noi stessi ci dà la sensazione   di aver compiuto un cammino evolutivo

organizzativo (ogni cosa al suo posto, secondo i nostri scopi) e l'inglobare parti di realtà ci fa vivere

la sensazione dell'unificazione, simile a quella che si ha, con esseri non subordinati, nell'amore

(possesso come unione).

La felicità deriva dal primato del nostro io su altri io o sulla realtà inanimata.

Questo tipo di felicità si spiega con il ragionamento, prima compiuto, per il quale ognuno di noi è

convinto di rappresentare l'unica vera realtà. Egli è felice quando prevale su ciò che gli appare fuori

di sé, perché ciò gli sembra una vittoria dell'essere sul non essere.

La felicità deriva dalla conoscenza e dal potere, che sono i simboli stessi dell'evoluzione.

Al contrario, ciò che ci dà dolore (la morte, la menomazione, l'irrealizzazione, la stasi, la sconfitta,

la noia) è in qualche modo collegabile al non essere ed alla de-evoluzione.

IL PROGRESSO COME SCOPO

Quando si pone la domanda su quale sia lo scopo della vita, generalmente si pensa ad una risposta

che riguardi il singolo individuo e non l'uomo nel suo insieme (come specie).

Si pensa altresì ad una risposta onnicomprensiva, conosciuta la quale non vi siano più domande da

porre, e non ad una risposta che non escluda altre possibilità, vale a dire non escluda che l'uomo,

oltre lo scopo indicato, possa averne altri oppure che la soluzione data sia solo parte di un discorso

più ampio.

L'ambito in cui vogliamo parlare del progresso come scopo dell'uomo presuppone, invece, uno

scopo comune a tutti gli esseri umani, uno scopo della specie, e non esclude l'esistenza di un

diverso discorso relativo allo scopo dei singoli individui, né pretende di esaurire il problema dello

scopo in relazione all'uomo, potendo però valere quanto meno come inizio di soluzione, come base

alla quale altre risposte devono ancorarsi o coordinarsi.

Per progresso generalmente si intende il progresso tecnologico; più raramente si parla di progresso

riferendosi ad una crescita globale dell'uomo, della sua civiltà e maturità. L'accezione in cui

vogliamo usare questo termine è, invece, darwiniana, poiché intendiamo riferirci all' evoluzione che

ha portato l'uomo dalla vita nelle caverne all'esplorazione dello spazio e, più in generale, ha portato

Tessere dalle prime forme unicellulari all'attuale forma umana, intelligente, autocosciente ed in

cammino verso risultati e conquiste sempre maggiori.

E" possibile parlare di progresso, perché vi è qualcosa che, finora, sopravvivendo alle vicende degli

individui e delle specie, è comunque andata avanti, acquisendo risultati sempre maggiori.

Ogni essere vivente, come ogni forma di aggregazione di esseri (civiltà) ed ogni specie, compie una

parabola, che inizia con la nascita, passa per un punto di massimo sviluppo e termina con la

decadenza e la successiva scomparsa.

Prima che quest'ultima si compia, vi è però la possibilità di trasmettere ad altri parte dei risultati

conseguiti, in modo che l'essere o la specie successiva partano da un punto più alto.

Così una specie può, per mutazione, dar vita ad un'altra, il padre può trasmettere ai figli le proprie

esperienze o la propria organizzazione di vita, la generazione precedente alla successiva le proprie

conoscenze, la civiltà greca può trasfondersi in quella romana, ecc.

Vi è qualcosa che sopravvive alla specie iniziale, ai padri, alle generazioni ed alle civiltà ed assume

vita e consistenze autonome.

Questo qualcosa è il progresso.

Volendo identificare una formula concreta del progresso, potremmo dire che esso è ciò che

comporta maggiori conoscenze e, di conseguenza, maggior potere per chi ne è portatore, maggior

potere in genere utilizzato per migliorare le condizioni di vita e. quindi, traducibile in maggior

benessere.

Per stabilire se un gruppo di viventi è più avanti di un altro sulla via del progresso, occorre pertanto

guardare al livello di conoscenze e potere che essa possiede, di cui le sue condizioni di vita sono il

segnale più evidente.

Comprendere che il progresso è scopo dell'uomo significa assumerlo consapevolmente come tale,

nei contesti culturali e nelle scelte politiche, con conseguente determinazione dei comportamenti e

delle priorità della vita associata.

Se questa scelta non si compie nel tempo dovuto, che sembra proprio essere quello attuale.

verosimilmente tutto il cammino futuro resterà pregiudicato, avendo la mera '"evoluzione per

tentativi" esaurito la sua forza propulsiva.

Il progresso è l'unico modo per arrivare "materialmente'' alla verità: solo se percorreremo tutta la

strada, sapremo cosa c'è in fondo ad essa.

Non è però l'unico modo per "collegarsì" con la verità, cioè con l'essenza del reale, con il principio

attivo che determina la forza e la volontà di essere e di progredire o, se si preferisce, con ciò che

esso sarà quando il percorso sarà compiuto e che, pertanto, già è, da qualche parte fuori del tempo,

se il percorso è destinato ad essere compiuto.

Il sentimento religioso può ben essere un modo di collegarsi alla realtà finale prima che essa esista o

sia visibile per noi.

L'amore ed il bene potrebbero essere caratteristiche dì questa entità, con la conseguenza che, tutte le

volte che li scegliamo e li viviamo, ci avviciniamo ad essa.

Questa può essere una delle direzioni, se non la principale, in cui muoversi per meglio comprendere

ed ampliare il concetto di scopo dell'uomo, senza limitarsi alla (pur fondamentale) visione

darwiniana sin qui descritta.



Numero 4

sintesi

 

(Non leggere prima di aver letto e compreso il documento integrale “Dove stiamo andando e perché”, nonché le varie teorie a esso collegate e le “pillole” uno, due e tre).

 

Chi Siamo?

Siamo, come tutto ciò che esiste e, a maggior ragione tutto ciò che vive, l’essere universale nel momento in cui cerca faticosamente di emergere dal non essere.

Non riconosciamo il medesimo essere presente nell’alterità, perché separato da noi da zone “occupate” dal non essere. In realtà gli altri sono, come noi, frammenti di coscienza dell’unico essere universale.

Le armi di cui disponiamo per emergere dal non essere e unirci a tutto ciò che, al di fuori di noi, è noi, sono la conoscenza e il bene. La conoscenza che determina il progresso scientifico, attraverso cui si attua l’evoluzione che conduce all’unità, e il concetto di bene, che ci consente di intuire che, nella sua forma finale, l’essere sarà unico e ci collega direttamente a esso, facendo sì che non desideriamo distruggere l’essere che vediamo intorno a noi e che, per la distorsione provocata dal non essere che ci circonda, percepiamo come nemico.

 

Da dove veniamo?

La storia dell’essere ha un inizio che, per la parte che noi riusciamo a vedere, si identifica con il Big Bang e procede, sempre per la parte che conosciamo, attraverso la formazione di galassie, stelle e pianeti e poi, progressivamente, distinzione della materia, vita, movimento, coscienza e autocoscienza. Noi siamo, finora, sempre per quanto sappiamo, il punto più elevato di questo processo. Attraverso noi, l’essere è finalmente in grado di attuare un’evoluzione guidata e non più attraverso inconsapevoli sforzi, come avvenuto finora. Prima di noi, l’essere procedeva attraverso ciechi tentativi, come chi cerchi al buio, in una stanza che non conosce, l’interruttore della luce; ora può procedere in una stanza illuminata e scegliere consapevolmente i passi da fare, purché, come purtroppo ancora non è, abbia finalmente chiaro che il suo scopo è l’evoluzione.

 

Dove stiamo andando?

Andiamo verso il punto finale, opposto al “nulla totale” e corrispondente alla piena estensione e unità dell’essere, nel quale rivivranno tutte le cose che sono state e il “libro dell’essere” potrà essere letto contemporaneamente e integralmente. Tutto farà parte della coscienza universale, che potrà ripercorrere ogni momento che abbia portato alla sua emersione dal non essere. Per tale via, tutti “resusciteremo”, la vita che avremo vissuto sarà di nuovo reale, partecipando alla realità del Tutto. Attraverso l’autocoscienza di esso ogni singolo essere esisterà come esistenza individuale e collettiva, immerso nell’essere universale, ma identificabile in esso, così come in una folla di pensieri presenti nella mente è possibile identificare e dare vita a un singolo pensiero.

Il percorso da compiere non è però necessario, né automatico. La lotta tra essere e non essere è reale e potrebbe concludersi anche con la vittoria di quest’ultimo. L’esito dipende da tutto ciò che è essere e, quindi, dipende ora da noi. Ciò attribuisce un senso e un valore profondo alla nostra esistenza e alle nostre azioni.

 

E perché?

L’essere non poteva esistere se non fosse emerso dal non essere. La lotta per l’emersione, svolta fuori del tempo, è un antecedente dell’esistenza dell’essere. Senza di essa, quest’ultima perde ogni base di ammissibilità logica, diviene pura irrazionalità.

Se l’essere esiste, vuol dire che ha sconfitto il non essere e che noi stiamo vivendo, come parte di uno senario molto più ampio, questa guerra. Siamo come un soldato che non vede tutto il campo di battaglia, ma fa parte della battaglia. Se non esiste, vuol dire che stiamo rivivendo un tentativo fallito e che tutto scomparirà.


Bruno de Filippis

Bruno de Filippis, magistrato dal 1978, autore di numerosissime opere giuridiche, pubblicate dalle maggiori case editrici nazionali, direttore e curatore di collane, più volte ascoltato come esperto di diritto di famiglia dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha collaborato alla stesura di leggi, tra cui la 54/2006, in tema di affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio. Ha presieduto o ha partecipato come relatore ad innumerevoli convegni in svariate località italiane. Ha diretto l’attività di commissioni di studio per la riforma del diritto di famiglia. Ha elaborato progetti di riforma per il riconoscimento dei diritti delle coppie non matrimoniali e delle coppie composte da persone dello stesso sesso, dei minorenni adottati nelle forme dell’adozione in casi particolari, dei nati da madri che non intendono essere nominate e delle persone che ricorrono alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.