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La trilogia di Bruno de Filippis

                      E' caduto il muro tra Chiesa e divorziati  ?


A come Adulterio o come Amore?

 

Dal New England  del XVII secolo

 

(Hester Prynne, “The Scarlet Letter”

di Nathaniel Hawthorne)

 

all’attualità.

 

 

 

 

 

PARTE PRIMA:

 

1997

 

“La Chiesa non può restare indifferente

davanti a questo problema doloroso,

 nel quale sono implicati tanti suoi figli”.

Giovanni Paolo II, venerdì, 24 gennaio 1997.

 

 

 

SUL PROBLEMA DEI DIVORZIATI RISPOSATI

E SULLA POSIZIONE DELLA CHIESA RIGUARDO AD ESSI

 

(Testo di una lettera inviata al settimanale “Famiglia Cristiana”

 nel mese di novembre 1995).

 

“La Chiesa, nata nel solco del messaggio del perdono, non perdona coloro i quali rinunciano all’ipocrisia di un rapporto matrimoniale svuotato di contenuti e scelgono di donare sé stessi in un nuovo rapporto d’amore. I violentatori e gli assassini possono essere perdonati, se solo promettono che non lo faranno più, e possono sfilare tra i fedeli che si recano a ricevere i sacramenti, i divorziati risposati no, ne sono esclusi e vengono additati alla comunità come peccatori.

Non si chiede la Chiesa perché essi lo fanno? Non si chiede perché accettino il prezzo di una condanna che li indica come le persone moralmente peggiori della società, le uniche alle quali non è consentito accostarsi ai sacramenti? Perché, se credenti, accettino la sofferenza che ciò comporta?

Non viene alla Chiesa il dubbio che almeno alcuni di essi, anziché per superficialità, lussuria o noia, agiscano per amore e, per amore, accettino le conseguenze della loro scelta? Non pensa la Chiesa che il numero crescente dei credenti che entrano nell’abietta categoria dei divorziati risposati possa indicare che c’è qualcosa nel cuore degli uomini che non ha accettato o capito?

Se la Chiesa interrogasse queste persone, anziché escluderle o emarginarle, alcune risponderebbero di non poter credere che i sentimenti profondi che avvertono in sè e che sono la cosa più bella che abbiano mai provato non provengano dal Signore e che l’amore sia contro la Sua volontà.

Abituati ad attribuire al Signore tutta la felicità che in passato abbiano ricevuto, ed a ringraziarlo per essa, non possono credere che la felicità attuale non provenga da Lui e che non sia consentito, o addirittura sia blasfemo, ringraziarLo per essa.

Forse è questa la risposta: tanti credenti violano la legge della Chiesa perché sentono, nel loro cuore, che essa non è giusta. Non hanno l’arroganza di gridarlo e magari neppure di pensarlo in modo consapevole, ma sentono dentro di sé che il Signore non li ha condannati e continua a giudicarli per la buona volontà che pongono in ogni atto della giornata, come prima, senza aver irreversibilmente chiuso alcuna porta, né riconosciuto alcuna macchia incancellabile.

La Chiesa non può impedire loro di sognare o magari di sentire dentro di sé, nello stesso luogo in cui si è sempre sentita la fede, che il Signore li ha consolati e li ha fatti alzare da che erano in ginocchio, accettando che diano la mano ad un nuovo compagno o ad una nuova compagna ed anzi dicendo che si tratta di un Suo dono.

Forse costoro dovrebbero essere giudicati in modo meno severo. Imporre loro di amare una persona perché in passato è stato contratto il vincolo di un sacramento, significa pensare che l’amore non sia un sentimento, ma un esercizio spirituale, uno sforzo ed un impegno della volontà, che possa essere realizzato a prescindere da ciò che dice il cuore. Significa pensare che una persona avvilita dal sacrificio di rinunciare all’amore, possa essere maggiormente capace di donare sé stessa agli altri, ed ai figli in particolare, abbia più da dare di una persona che si senta realizzata nella sfera fondamentale del rapporto a due.

Con ciò, non si vuole negare l’importanza e neppure la bellezza del sacrificio come valore cristiano, quanto si vuole credere che l’uomo possa desiderare e chiedere di affrontare i sacrifici della vita in due, secondo ciò che naturalmente fu creato, con una compagna che sia simile a lui e sia perciò a lui legata dal vincolo dell’amore.

Così visto, il conflitto è tra punizioni, condanne e sofferenze che esse provocano in coloro che ne sono destinatari, ed amore. Amore che non porta a chiudersi in sé, ma è una forza grazie alla quale le persone divengono capaci di donare maggiormente se stesse agli altri e in particolare alla comunità cristiana, se e quando vorrà riaccoglierli. Amore che porta ad accettare di pagare qualunque prezzo, perché è la forza maggiore che esiste nel cuore dell’uomo ed è il dono più grande che il Signore gli abbia fatto.”

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Il problema dei rapporti tra divorziati e Chiesa è uno dei più attuali e scottanti del nostro tempo, che attraversa in modo drammatico migliaia di coscienze, ma è un problema del quale si parla poco. Soprattutto, su di esso, non vi è contraddittorio, in quanto, nell’ambito dei credenti, la gerarchia ecclesiastica ne parla ex cathedra e, quindi, senza riconoscere ai destinatari del messaggio la dignità di interlocutori. Al di fuori del contesto dei credenti, il problema sembra non suscitare alcun interesse, come se fosse una “questione interna” della Chiesa. Non vi sono prese di posizioni o mobilitazioni, come quelle che si determinano contro gli abusi dei Talebani in Afganistan. Il popolo dei credenti, a sua volta, non pensa in alcun modo di mutuare dal contesto civile regole di democrazia e di consenso né viene da alcuno indotto a farlo. Divengono pertanto impensabili movimenti di opinione che, all’interno della Chiesa e da parte di non divorziati, esercitino pressioni per la modifica di posizioni o valutazioni decretate dalla gerarchia.

Infine le vittime di questa situazione, vale a dire i cattolici che hanno attraversato l’esperienza del divorzio, non sanno far ascoltare la loro voce. Essi sono isolati, non hanno tempo e capacità di organizzarsi, né punti di riferimento culturali, sia per la novità del fenomeno, sia per il disinteresse, sul tema specifico, da parte dei tradizionali avversari dialettici della Chiesa. (Ma il discorso sul se tale aiuto sia desiderato ed auspicabile è a sua volta complesso). In tale isolamento, ciascun divorziato non può far altro che avvertire l’estrema sofferenza che deriva da una posizione di condanna considerata profondamente ingiusta e alzare un grido che non ha eco e non raggiunge quella soglia di attenzione presso cui l’intera comunità comincia a rendersi conto dell’esistenza di un problema ed a discuterlo. Certamente, se tutte le voci si muovessero insieme, il risultato sarebbe ben diverso [1].

A mio giudizio, è semplicistico dire che la regola per i credenti è quella che la Chiesa ha stabilito e che, se a qualcuno la cosa non va bene, è libero di andar via. Le regole, possono essere modificate. La Chiesa cattolica ha sbagliato tante volte, in passato, che gli ultimi venti anni non sono bastati per chiedere perdono a tutti per tutti gli errori commessi. Non può escludersi la possibilità che anche su questo argomento essa abbia assunto una posizione sbagliata e che, forse tra tre o quattrocento anni, chieda scusa per ciò. Allora, tuttavia, coloro che adesso sono condannati e ne soffrono non vi saranno più e non ascolteranno il pentimento. Oltre a ciò, è evidente che, per un credente, “andar via” dalla Chiesa non è semplice come abbandonare un club o un’associazione che abbia imposto regole insostenibili: si tratta di una scelta impossibile, poiché non è possibile rinunciare alla speranza di salvezza.

Il mio intento, pertanto, è quello di aprire un dibattito su questo argomento, vincendo una congiura del silenzio”, spero non voluta ad arte da alcuno, attualmente vigente. Desidero con ciò dare un contributo perché le coscienze che sono in questo momento attraversate e magari dilacerate dal problema, non si sentano sole e non siano spinte verso posizioni di tristezza, rabbia e totale rifiuto della Chiesa. Da credente, voglio cercare di affrontare il problema con serenità e soprattutto senza astio, ma con la consapevolezza che non vi sono dogmi che non debbano essere spiegati, giustificati e riconosciuti veri dalla mente o dal cuore.

Affrontare questo argomento implica responsabilità di coscienza e rischi. È certamente possibile sbagliare e trascinare nel proprio errore altre persone, tanto più numerose quanto più si realizzi l’obiettivo di suscitare un ampio dibattito ed è altresì possibile che qualcuno travisi o strumentalizzi quanto è stato detto ed assuma comportamenti errati, che provochino sofferenze in altre persone, sostenendo che si è determinato ad essi a causa delle parole che aveva ascoltato.

Ciò deve comportare un continuo esame di coscienza, un continuo mettersi in discussione, ma non può bloccare il diritto di chiedere e di dire, né diminuire l’amore per ciò che sembra essere la verità e impedire la lotta contro ciò che sembra essere ingiusto. L’importante è che ogni ricerca sia condotta in buona fede e sia animata dalla volontà di far bene; l’obiettivo è aiutare una categoria di persone, quale è quella dei cattolici divorziati, che attualmente ha motivi per sentirsi dimenticata dalla Chiesa.

 

 

L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA NEI CONFRONTI DEI DIVORZIATI RISPOSATI

 

Il testo base, da prendere in considerazione è l’Esortazione Apostolica “Familiaris Consortio” [2].

In essa si tenta una difficile opera di conciliazione tra due posizioni opposte e si raggiunge una soluzione di sottile e direi, bizantino equilibrio. Da una parte si afferma che i divorziati risposati non sono separati dalla Chiesa e possono, anzi devono partecipare alla sua vita, dall’altra li si esclude dal sacramento dell’Eucaristia.

Ciascuna delle due parti è autonoma e, se l’altra non vi fosse, costituirebbe un discorso completo. Sia pertanto consentita, in un primo momento, un’analisi separata.

Nel par. 84 b, i divorziati risposati sono esortati ad ascoltare la parola di Dio, a frequentare il sacrificio della messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza, implorando così, giorno per giorno, la grazia di Dio.

Tutto ciò rappresenta certamente un “essere dentro la Chiesa”. Il dubbio, suggerito anche dall’ultima frase, è se i divorziati siano dentro la Chiesa perché è possibile per un divorziato esserlo in quanto tale oppure perché la Chiesa l’ha accolto solo in vista della redenzione. Vale a dire, ci si chiede se, con tale impostazione, la Chiesa voglia accettare la situazione del divorziato e si sforzi di consigliare come si possa vivere cristianamente in essa oppure se l’accettazione sia condizionata alla possibilità di conversione e pentimento ed avvenga, quindi, in funzione di essa. Questa seconda ipotesi significherebbe che non vi è posto per i divorziati risposati nella Chiesa, ma che la Chiesa li accoglie “sotto condizione”, cioè al solo scopo di suscitare in loro un pentimento attivo, che si estrinsechi nell’abbandono della condotta proibita.

Ancora, potremmo dire che, con la prima interpretazione, il divorziato risposato sarebbe uguale a tutti gli altri fedeli, sarebbe cioè un peccatore che, restando nella condizione del peccato da cui tutta la specie umana deve essere redenta, si sforza di compiere un cammino di salvezza. Nella seconda, invece, egli sarebbe un “peccatore speciale, cioè un peccatore diverso dagli altri, ammesso in mezzo a loro solo allo scopo di ottenere da lui un comportamento che sia pre­condizione per la ripresa del cammino comune.

Al par. 84 b, prima citato, si collega il par. 84 d), che sembra rispondere alla domanda posta. In esso, infatti, si legge che la Chiesa, -con ferma fiducia”, crede che “anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità”.

Dal collegamento tra 84 b ed 84 d sembra pertanto sostenibile la tesi che i divorziati risposati non siano dentro la Chiesa solo perché debbano essere convinti a cambiare vita, ma che vi sia un cammino anche per i divorziati risposati che intendano restare tali (cioè vivere nella pienezza il nuovo rapporto) e che esso possa portare alla salvezza, attraverso preghiera, penitenza e carità, anche senza passare attraverso il pentimento attivo dell’abbandono del nuovo compagno o del vivere insieme a lui astenendosi da rapporti coniugali.

La parte della Familiaris Consortio che si ispira a maggiore rigidità è contenuta nel par. 84 c.

In esso si legge che i divorziati risposati non possono essere ammessi alla comunione eucaristica, in quanto il loro stato e la loro condizione di vita “contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata ed attuata dall’eucaristia” e che la riconciliazione nel sacramento della penitenza può essere accordata solo a quelli che “pentiti di aver violato il segno dell’alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio” [3].

Sull’interpretazione di questa parte non possono esservi dubbi. Essa afferma che vi è una contraddizione assoluta ed insanabile tra comportamento dei divorziati risposati e fedeltà a Cristo, che comporta come conseguenza l’assoluta impossibilità, per essi, di partecipare al momento centrale ed insostituibile della vita della comunità ecclesiale, l’Eucaristia, che racchiude e simboleggia tutto il messaggio del vangelo.

Per comprendere quanto, secondo questa parte, i divorziati sono “fuori” dalla Chiesa, è sufficiente por mente a ciò che l’Eucaristia rappresenta per la Chiesa stessa. Essa viene definita “fonte di grazia e santità”, “fonte e culmine dei sacramenti”, “pegno di vita eterna”, “culmine di comunione nella carità” e rappresenta l’incontro “reale” con Cristo “presente nel tabernacolo”.

Essere considerati indegni ed essere esclusi dall’incontro con Cristo non può non significare altro che essere fuori dalla Chiesa, creata per essere sposa di Cristo e per essere unita a Lui. Escludere i divorziati dall’Eucaristia non è poco, ma è “tutto”, non significa invitarli al banchetto e farli astenere da una delle pietanze, significa non invitarli affatto.

Se ciascuna delle due parti esprime ciò che si è detto e sembra frutto di due anime diverse ed inconciliabili, occorre leggerle insieme, poiché l’interpretazione del                               documento non può che essere frutto di una lettura complessiva.

È qui che cominciano i dubbi. Le due parti costituiscono una la premessa e l’altra la conclusione? In tal caso il documento sarebbe viziato nella sua struttura logica, perché giustificherebbe la propria conclusione con argomenti ad essa opposti. Le due parti si occupano di problemi o aspetti diversi? La risposta è negativa, il problema è uno solo e consiste nel se i divorziati risposati possano avere accesso al cammino di salvezza dei fedeli della Chiesa oppure debbano percorrere, da paria o reietti, un sentiero diverso, dove vi siano spine ed ostacoli e nel quale debbano “arrangiarsi da soli”. Non si riesce a credere che la distinzione vi sia e che davvero essere dentro la Chiesa ed avere accesso ai sacramenti siano due argomenti diversi, intorno ai quali si possano svolgere ragionamenti paralleli.

Un’altra possibilità è che il documento sia come quei particolari disegni in cui si possono individuare, a seconda della posizione e dell’angolazione con cui li si guarda, immagini del tutto diverse. Questa eventualità può dirsi confermata da discorsi e scritti, che non sono infrequenti nell’ambito della comunità ecclesiale. Un articolo apparso di recente su di un settimanale cattolico  paragona la situazione dei divorziati risposati a quella di coloro i quali, in un castello di cento stanze (che simboleggerebbe la Chiesa) possono accedere a novantanove di esse [4] (la Parola, la preghiera, la solidarietà..), restando esclusi solo da una (L’Eucaristia) [5].

Non credo che il senso della “Familiaris Consortio” sia questo e che essa tenda a minimizzare il problema dei divorziati risposati, dicendo che essi sono “in regola al 99%, eppure una tale interpretazione, forse per benevolenza, viene fatta da qualcuno, come è dimostrato dall’articolo citato.

L’ultima possibilità è che uno dei due contenuti prevalga sull’altro, che cioè una delle sue parti sia di fatto cancellata dall’imponenza dell’altra. Ciò avverrebbe se, ferme restando tutte le considerazioni sulla ricomprensione dei divorziati nella Chiesa, si dovesse in qualche modo aggirare, rendere meno assoluto o comunque svuotare di contenuto il divieto di accedere all’Eucaristia oppure se, individuando il centro del messaggio di salvezza nell’Eucaristia, si dovesse far ruotare tutto il resto intorno a ciò, riducendolo a mera espressione di speranza o ritornando al discorso dell’accoglimento strumentale dei divorziati, cioè dell’accoglimento subordinato e limitato al tempo necessario perché essi raggiungano il “pentimento attivo” di cui si è detto.

 



[1] Nel periodo compreso tra il 1990 ed il 1994, le separazioni in Italia sono state 234.435 ed i divorzi 132.392.


[2] Esortazione apostolica Familiaris Consortio, di Sua Santità Giovanni Paolo II, all’episcopato, al clero ed ai fedeli di tutta la Chiesa cattolica circa i compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi. Dato a Roma, presso san Pietro, il 22 novembre dell’anno 1981, quarto del Pontificato. Libreria Editrice Vaticana, 1981.


[3] Familiaris Consortio cit., par. 84: «L'esperienza quotidiana mostra, purtroppo, che chi ha fatto ricorso al divorzio ha per lo più in vista il passaggio ad una nuova unione, ovviamente non col rito religioso cattolico. Poiché si tratta di una piaga che va, al pari delle altre, intaccando sempre più largamente anche gli ambienti cattolici, il problema dev'essere affrontato con premura indilazionabile. I Padri Sinodali l'hanno espressamente studiato. La Chiesa, infatti, istituita per condurre a salvezza tutti gli uomini e soprattutto i battezzati, non può abbandonare a se stessi coloro che - già congiunti col vincolo matrimoniale sacramentale - hanno cercato di passare a nuove nozze. Perciò si sforzerà, senza stancarsi, di mettere a loro disposizione i suoi mezzi di salvezza.

Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C'è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell'educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido.

Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l'intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza.

La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia. C'è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio.

La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l'educazione dei figli - non possono soddisfare l'obbligo della separazione, «assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Giovanni Paolo PP. II, Omelia per la chiusura del VI Sinodo dei Vescovi, 7 [25 Ottobre 1980]: AAS 72 [1980] 1082).

Similmente il rispetto dovuto sia al sacramento del matrimonio sia agli stessi coniugi e ai loro familiari, sia ancora alla comunità dei fedeli proibisce ad ogni pastore, per qualsiasi motivo o pretesto anche pastorale, di porre in atto, a favore dei divorziati che si risposano, cerimonie di qualsiasi genere. Queste, infatti, darebbero l'impressione della celebrazione di nuove nozze sacramentali valide e indurrebbero conseguentemente in errore circa l'indissolubilità del matrimonio validamente contratto. Agendo in tal modo, la Chiesa professa la propria fedeltà a Cristo e alla sua verità; nello stesso tempo si comporta con animo materno verso questi suoi figli, specialmente verso coloro che, senza loro colpa, sono stati abbandonati dal loro coniuge legittimo. Con ferma fiducia essa crede che, anche quanti si sono allontanati dal comandamento del Signore ed in tale stato tuttora vivono, potranno ottenere da Dio la grazia della conversione e della salvezza, se avranno perseverato nella preghiera, nella penitenza e nella carità».

 


[4] Famiglia Cristiana del 9/4/1997, anno LXVII, n. 15, pag. 6: «Molti comunque hanno detto che una pastorale fortemente incentrata sui sacramenti (preparazione e celebrazione), come è in buona parte oggi quella italiana, rischia di lasciare in ombra altri importanti aspetti della vita cristiana: la centralità della parola, la preghiera, la vita comunitaria con le sue ricche articolazioni, la solidarietà, il servizio degli ultimi. E spesso deriva da qui, più che dai divieti, la sensazione di essere emarginati in coloro che non possono accostarsi alla comunione. Un’immagine può aiutare a capire meglio i termini del problema. Se paragoniamo la Chiesa a un castello di cento stanze, potremmo dire che quanti vivono in situazioni “irregolari” possono accedere a tutti gli ambienti, tranne che a uno. La reazione psicologica più frequente da parte di costoro è invece quella di considerarsi del tutto fuori, anziché fruire legittimamente delle altre novantanove stanze, attribuendo alla Chiesa la colpa della loro esclusione».


[5] La tesi “delle novantanove stanze” accessibili è tuttavia palesemente smentita da documenti ufficiali della Chiesa. Si veda il n. 218 del capitolo VII della Pastorale Familiare CEI 8 ottobre 1993. Ivi si legge: «La partecipazione dei divorziati risposati alla vita della Chiesa rimane comunque condizionata dalla loro non piena appartenenza ad essa. È evidente, quindi, che essi “non possono svolgere nella comunità ecclesiale quei servizi che esigono una pienezza di testimonianza cristiana, come sono i servizi liturgici e in particolare quello di lettori, il ministero di catechista, l'ufficio di padrino per i sacramenti”. Nella stessa prospettiva, è da escludere una loro partecipazione ai consigli pastorali, i cui membri, condividendo in pienezza la vita della comunità cristiana, ne sono in qualche modo i rappresentanti e i delegati. Non sussistono invece ragioni intrinseche per impedire che un divorziato risposato funga da testimone nella celebrazione del matrimonio: tuttavia saggezza pastorale chiederebbe di evitarlo, per il chiaro contrasto che esiste tra il matrimonio indissolubile di cui il soggetto si fa testimone e la situazione di violazione della stessa indissolubilità che egli vive personalmente».


Il libro di Bruno de Filippis "E' caduto il muro tra Chiesa e divorziati" è edito da Pacini giuridica.







Bruno de Filippis

Bruno de Filippis, magistrato dal 1978, autore di numerosissime opere giuridiche, pubblicate dalle maggiori case editrici nazionali, direttore e curatore di collane, più volte ascoltato come esperto di diritto di famiglia dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha collaborato alla stesura di leggi, tra cui la 54/2006, in tema di affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio. Ha presieduto o ha partecipato come relatore ad innumerevoli convegni in svariate località italiane. Ha diretto l’attività di commissioni di studio per la riforma del diritto di famiglia. Ha elaborato progetti di riforma per il riconoscimento dei diritti delle coppie non matrimoniali e delle coppie composte da persone dello stesso sesso, dei minorenni adottati nelle forme dell’adozione in casi particolari, dei nati da madri che non intendono essere nominate e delle persone che ricorrono alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.