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La trilogia di Bruno de Filippis

 ASSIA

 

Non volevo sposarmi. Mi convinsi che era necessario perché frequentavo una ragazza già da un po’. Mi convinsi da solo, senza spinte esterne e senza che neppure Lilly mi facesse troppo sentire che ci teneva. I condizionamenti interni sono quelli più micidiali, non lasciano scampo. L’educazione strettamente cattolica, che per altri aspetti mi ha dato tanto, rendendomi più altruista e sensibile, per questo mi ha rovinato.

Per chiederle se volesse dividere la vita con me presi spunto da libri e film. Da dentro non mi veniva. Un ristorantino isolato in collina, con bella vista panoramica, mi sembrò la location ideale e la bella cena, la campagna che si stendeva ai nostri piedi, punteggiata di luci lontane, che davano l’idea di un presepe sconfinato, mi diedero il coraggio di darle l’anello che avevo comprato con il mio primo stipendio.

Poi la vita, la routine, i figli, i problemi, il lavoro, gli amici, qualche litigio: tutto normale, eravamo una bella famiglia, una cellula ideale della società. Ci volevamo bene? Sì, perché non avremmo dovuto? Con il trascorrere degli anni la sentii un po’ scivolare via da me, ma anche questo era normale, anche questo era routine. Eravamo una coppia perfetta in tutte le occasioni ufficiali e, nel privato, due io che collaboravano sinceramente, pur reclamando ognuno i suoi spazi fisici e mentali. Cosa volere di più? Non avendo ancora sperimentato l’amore, quello che sconvolge la vita e fonde due anime in una, portandole a una temperatura di mille gradi, ero convinto fosse il massimo che si potesse avere.

 

Devo essere proprio diventato vecchio, se mi tornano in mente queste cose.  Però la colpa è di questo maledetto lockdawn, che lascia così tanto tempo per pensare. Lavorare da casa è una noia, per chi, come me, vive da solo. E allora si pensa, si guarda indietro, a ogni bivio della vita, immaginando cosa sarebbe successo se si fosse presa l’altra direzione. Ogni sera, quando cerco di addormentarmi, ne ricostruisco uno. L’esistenza è fatta di snodi e gli snodi sono costellati di errori. Occorrerebbe vivere più volte, forse dieci, per non ripeterli e non farne di nuovi, ma la vita è una sola ed è spesso implacabile nel negare la possibilità di tornare indietro. È come se, ad ogni passo, si chiudesse dietro di noi una saracinesca, calasse un sipario che lascia aperta un’unica via, trasformando la realtà in ricordi e i ricordi in nebbia sottile.

Stasera, però, i miei pensieri sono orientati diversamente. Non nascondo di essere in preda alla paura. Da qualche ora ho tosse secca ricorrente e mal di gola. Normalmente, ciò non mi avrebbe procurato alcuna preoccupazione, ma siamo in tempi di Covid e la situazione è del tutto particolare.

Ancora un colpetto di tosse, la gola mi dà fastidio. Ogni parte del nostro corpo sta lì, al suo posto, e non la sentiamo. Quando ciò avviene, quando una parte fa capire che esiste, vuol dire che c’è un problema. Ho letto da qualche parte che le persone con il gruppo sanguigno A sono maggiormente predisposte all’insorgenza della malattia e il mio gruppo è proprio A positivo. Non devo suggestionarmi. Ci sono miliardi di persone con il gruppo A e non devono mica ammalarsi tutte.

L’incubazione della malattia è di cinque-sei giorni, fino a un massimo di quattordici. Cosa ho fatto cinque giorni fa? Nulla di particolare, non posso essermi contagiato, mi tranquillizzo. Mi torna in mente una pubblicità del Ministero della Salute, che mostra il passaggio del virus, come una spirale rossa, da una persona all’altra e dalla mano di uno, attraverso l’uso dello stesso bancomat, all’altro. Nel buio della notte, l’immagine mi terrorizza. Vedo una spirale rossa che mi avvolge. Sprofondo in un sogno nel quale la spirale è un boa. Mi sento stringere la gola fino a soffocare.

 

È mattina e mi sveglio di colpo, mettendo a fuoco la mia preoccupazione. Cinque o sei giorni fa sono uscito per fare la spesa e mi si è abbassata la mascherina. Non l’avevo legata bene. Quando l’ho rialzata, ho istintivamente portato la mano alla bocca. È un gesto naturale, mille volte ci tocchiamo il viso o il capo senza accorgercene. Avevo il guanto, ma con il guanto avevo appena preso il resto dalla cassiera. Soldi, guanto, bocca, la spirale della pubblicità! Si è chiuso il cerchio e mi sono infettato. Un brivido mi percorre la schiena. Ma no, è paranoia. Mi sto suggestionando. Non è possibile che il virus stesse proprio lì, in quelle monete, ad aspettarmi e che si sia tuffato nella mia bocca come un missile, approfittando dell’unico angolo e dell’unica traiettoria possibile. Cerco di sorridere al percorso tortuoso che ho immaginato, ma non ci riesco. Butto all’aria tutto quello che c’è nel cassetto del comodino: pillole, qualche libro incominciato e mai finito, una torcia elettrica, le istruzioni della radiosveglia che non ho mai letto. Prendo il termometro, lo infilo sotto il braccio e aspetto il mio destino. Trentasei e cinque, sono salvo. Però a quest’ora in genere ho di meno. Riproverò più tardi. Non posso chiamare il medico se non ho febbre. Guardo dinanzi a me il giorno grigio che mi aspetta. È domenica e non ho diritto di uscire. Potrei inventarmi una scusa, ma quale e per andare dove? Devo affrontare tutta la giornata da solo. Giocherò con il pc, guarderò la Tv, mi preparerò qualcosa da mangiare? Non ho voglia di niente. Improvvisamente desidero pregare. Sono anni che non prego, ma quando ti viene messo dentro da bambino non va più via e torna nei momenti di paura. Recito una preghiera, poi comincio a parlare, in prima persona, con Gesù. All’inizio è dolce, mi sembra di essere veramente in contatto con qualcosa di infinitamente buono e protettivo. Poi tutto scompare in un rigurgito di razionalità. Ho sempre criticato chi interpretava la religione come una forma di assicurazione sulla vita: Signore fai ammalare quell’altro e non me, perché sono cristiano. In altre parti del mondo: perché sono buddista o musulmano.

Gesù è sparito come una bolla di sapone. Sono di nuovo solo con i miei pensieri.

 

 

Assia entrò nella mia vita come un soffio di vento, prima di diventare un uragano.

La vicina di casa mi parlò di quella sua nipote, che era stata in Inghilterra e che stava per andare a vivere con lei. L’idea di farla entrare in casa nostra fu di Lilly. Marco, mi disse, è una buona occasione perché i bambini perfezionino la lingua. “Ma già vanno alla scuola privata” – risposi – “Che bisogno c’è di una precettrice?”

Quando la vidi decisi che sì, ne avevano molto bisogno.

La prima volta è impressa a fuoco nella mia mente. Sorriso sincero, atteggiamento aperto verso la vita, capelli chiari a caschetto, occhi belli, fisico che, senza essere appariscente, era certamente in grado di far girare la testa di un uomo al suo passaggio, lasciandola così, con il massimo angolo possibile, fino a che non fosse scomparsa dalla vista. Ebbi l’impressione di avere, da quel momento, una ragione per vivere. Non mi innamorai subito o almeno non mi resi conto di ciò, ma repentinamente mi accorsi che il mio umore quotidiano era cambiato, passando da tranquillo stabile a allegro semi euforico.

Assia amava parlare e, ancora di più, amava ascoltare. Dopo la lezione si tratteneva spesso. Qualche volta restava a cena con noi. Non ho mai più incontrato qualcuno che sapesse ascoltare così bene. Lei ci metteva l’anima. Tutto le interessava, ma principalmente ciò che riguardava le persone e la vita. Assia era la vita. Da allora, il modo di ascoltare, così diffuso, di chi ti sente e pensa ad altro o approfitta di una pausa per cambiare discorso e parlare di ciò che interessa a lui/lei mi è divenuto insopportabile.

In seguito, quando mi succedeva qualcosa che avevo voglia di condividere, mi è capitato spesso di pensare a lei. Ad Assia, che era presa dal mio racconto e beveva le mie sensazioni, trasmettendomi in risposta le sue, a volte anche solo attraverso gli occhi. All’inizio pensavo che fosse fatta così e che facesse lo stesso con tutti, poi capii che era vero, ma che con me lo era più, perché io per lei ero speciale.

Assia era fuggita da un marito violento e geloso, che poi venne a perseguitarla anche qui. Un uomo che, sin da quando lei aveva 14 anni, l’aveva considerata sua proprietà esclusiva e, dopo averla sposata, l’aveva trattata come un oggetto prezioso, da tenere chiuso in casa, per paura che qualcuno glielo rubasse. Amore violento, amore criminale, che aveva lasciato, non solo sul suo corpo, segni indelebili. Ma Assia non poteva essere tagliata fuori dal mondo, era come l’aria, non poteva essere imprigionata. Era fuggita.

 

Pensare ad Assia non mi risolleva, ma mi intristisce. Devo alzarmi, farò un po' di ginnastica leggera. Una delle cose peggiori del Covid è che non si può nemmeno ordinare una pizza. Io lo faccio spesso, non amo cucinare. Mangio fuori due volte su tre, mensa aziendale e ristoranti con prezzi abbordabili.

Mi alzo convinto, ma alla prima flessione precipito e i miei pensieri ricadono su di me come i pezzi del domino. Rivedo un’altra scena, come in una vecchia pellicola, un “classico” della mia vita. Fu proprio il marito di Assia a farci superare la timidezza che impediva ad entrambi di dichiarare il nostro amore. Aveva scoperto, chissà come, il suo indirizzo ed era riuscito a farle aprire la porta, fingendosi pentito e cambiato e dicendo che le voleva solo parlare. Una volta dentro, però, dopo che lei gli aveva fatto capire che non sarebbe tornata indietro, aveva gettato la maschera, strattonandola e dicendo che l’avrebbe seguito, con le buone o con le cattive. Sentii le grida attraverso la parete e mi precipitai a bussare. Lui venne ad aprire e mi intimò, a malo modo, di farmi i fatti miei. Ma io non pensavo che ci fosse niente di più mio che Assia e non me ne andai. Lei disse qualcosa e, approfittando della distrazione di lui, entrai in casa. Cercò di colpirmi e io schivai il colpo. Girai intorno a un tavolo e lui girò con me, cercando di afferrarmi. Era grosso. Notai che il suo bicipite tatuato era il doppio del mio, anche se a quel tempo facevo molta palestra. “Chi è, il tuo amante?” Gridò in modo sprezzante, rivolgendosi ad Assia. Non lo ero, ma sentire quella parola riferita a me e a lei mi diede un senso di ebbrezza. Avrei sfidato un rinoceronte infuriato. Lui rovesciò il tavolo, ma io presi un vaso, frantumandolo sul suo viso. Il sangue lo accecò per qualche istante, che utilizzammo per scappare, mano nella mano. Approfittammo dei pochi secondi di vantaggio per rifugiarci nell’ascensore, che per grazia ricevuta era fermo lì davanti. Partimmo e lo bloccammo tra un piano e l’altro. Non sentimmo più l’energumeno che urlava e, immagino tamponando il sangue che gli usciva dalla fronte, prendeva a calci la porta. Non sentimmo più niente. Il mondo scomparve mentre eravamo a metà tra il terzo e il quarto piano. Le sue labbra, come avevo immaginato, sapevano di miele. Il suo seno pulsava contro il mio petto con la velocità di un cuore impazzito. Le mie mani cercavamo il suo viso e i suoi capelli per accarezzarli e accarezzarli ancora.

Non so quanto tempo restammo lì. Qualcuno aveva chiamato la polizia. Ne venimmo fuori.

Da allora iniziò la nostra relazione. In presenza di altri eravamo seri e compunti, ma non perdevano occasione per scambiarci occhiate e strette di mano segrete. Quando eravamo soli ci amavamo. Gli incontri erano a casa della zia, che spesso era assente. Anche mia moglie, per lavoro, era sovente fuori e noi avevamo campo libero. Un campo meraviglioso che non finivamo di assaporare.

A volte uscivamo con i miei figli e io sognavo che fossero anche suoi. Con Assia tutto assumeva un altro colore. Che contrasto con il mio mondo di oggi, con questa domenica spettrale e solitaria! Ricordo una volta al circo. Vedevo tutto con gli occhi di un bambino. Se vi fossi andato qualche mese prima, sarei stato lieto della gioia dei miei piccoli, ma dentro di me avrei sbadigliato. Con lei, invece, avevo l’entusiasmo di un bambino anch’io. La scimmietta, gli acrobati, le bandierine e i pop corn, tutto mi sembrava meraviglioso.

 

È ora di pranzo, ho lasciato perdere le flessioni perché mi sento spossato. Un altro sintomo? Ho rimesso il termometro. 37,4° aiuto, ora è vero allarme. Un solo decimo di grado mi separa dalla soglia proibita. La gola e la testa sono dolenti. Vado alla finestra e guardo fuori. È una giornata luminosa, ma le strade sono deserte. È come se la mia solitudine fosse stata amplificata, uscendo da questa stanza e spargendosi per tutta la città, forse per tutto il mondo.

Cerco di ragionare con calma. Ho qualche sintomo, ma non ho il covid. Lo ripeto a me stesso e mi convinco. Torno a letto e chiudo gli occhi. Mi rialzo quasi subito e chiamo il medico di base. Riesco a parlargli dopo numerosi tentativi. È infastidito perché l’ho chiamato di domenica. Dice di controllare la temperatura e di aspettare domani. Aspettare? Ma si rende conto della mia situazione, anche psicologica? Alzo la voce e la alza anche lui. Chiude il telefono. Sono sicuro che non mi risponderà più, almeno per oggi. Chiamo la ASL e dicono di sentire il medico di base. Un cane che si morde la coda, anzi morde me. Maledico tutto il sistema sanitario e decido che non pagherò mai più le tasse.

Vivere da soli comporta qualche vantaggio: non devi rendere conto a nessuno di dove vai e cosa fai, non devi adeguarti a orari e esigenze altrui e puoi vivere seguendo esclusivamente la tua testa e i tuoi capricci, ma gli svantaggi sono maggiori, come capisci quando ad aspettarti c’è una casa vuota o quando, come ora, hai bisogno di aiuto.

I miei figli vivono lontano e comunque non li chiamerei.

Un altro flashback: Lilly, capelli al vento e bella come tutto ciò che stai perdendo, carica valige e ragazzi sulla nostra station wagon. Si volta per un attimo a guardare, più che me, la sua vecchia casa. Intuisco un momento di commozione e spero che possa farle cambiare idea, ma è una speranza vana. I figli non si girano neppure indietro. Ha lavorato molto bene nel mettermeli contro, nel convincerli che tutto era avvenuto per colpa mia. Li ha manipolati partendo dalla storia di Assia, tacendo il fatto che la sua relazione con Arturo era iniziata molto prima e che io avevo lasciato Assia mentre lei aveva solo finto di lasciare Arturo. Le faccio i complimenti per come ha saputo stravolgere la realtà! Sono “sessista” se dico che le donne sono molto più brave di noi nel trasformare il nero in bianco e viceversa?

Vivo il resto della domenica tra pensieri e paure.

So di malati che sono svenuti e, vivendo soli, sono stati ritrovati morti dopo giorni. E se capitasse a me? Scrivo un WA a due amici, dicendo che se entro stasera non li chiamo, devono avvertire la ASL di venirmi a prendere e che la mia vicina di casa ha le chiavi. L’avranno ricevuto? Una v, due v, ma non si colorano, non l’hanno ancora letto. Se succede, spero che il mio medico abbia una crisi di coscienza, ma non so, non tutti hanno la coscienza.

I pensieri mi riportano al bivio più importante della mia vita, dove ho sbagliato tutto e dove vorrei ogni giorno tornare per prendere l’altra strada.

Rivedo come fosse ora il volto di don Raffaele, all’epoca il “mio padre spirituale”. Giocando sui miei sensi di colpa e su condizionamenti atavici mi convinse che dovevo “sacrificarmi per il bene dei figli”, lasciando Assia con la quale ero andato a vivere e tornando da mia moglie. Volto severo, aria paterna, espressione consapevole di star per recuperare la pecorella smarrita, grandi orecchie che si muovevano al ritmo del capo, che assentiva a ogni parola che la bocca pronunciava. Assassino. Mi tolse tutto ciò che avevo. Ma più che con lui ce l’ho con me per averlo ascoltato. Assia non mi perdonò mai. Capì perché lo facevo e comprese, con la sua sensibilità, quanto stessi soffrendo, ma sparì e fece in modo che non la ritrovassi mai più.

 

Ora sto veramente male e non ho più dubbi. Il termometro segna 39,8°. Sono contagiato. Sento un peso sul petto, come se una pietra mi comprimesse la cassa toracica. Non cado a terra perché sono già sul letto, ma non riesco a formulare pensieri coerenti. Incubi e immagini da sogno si alternano.

 

Padre Raffaele è colorato di rosso, sembra un demonio. Mi percuote più volte il petto.

- Ma non capisci! – dice – Ce n’era una sola giusta per te, una sola in tutto l’universo! Era lei e tu l’hai lasciata! –

Replico che mi ha detto lui di farlo, ma insiste: - Per questo andrai all’inferno, all’inferno, anzi ci sei già! – È così vicino che sento il suo alito sulla faccia. Prende un ferro rovente e me lo infila in gola. La mia gola brucia. Cerco di urlare ma non emetto alcun suono.

 

Dove sono? Mi hanno portato in ospedale? Forse si e devono avermi sedato, perché non riesco a emergere dal sonno. Assia è con me. Rivivo una scena della nostra prima notte. Sono di spalle e lei, con la punta delle dita, scrive qualcosa sulla mia schiena. Devo indovinare. Questa è una T, sicuro, poi una i, è saltata su per fare il puntino. Non c’è bisogno che scriva altro. Indovino. Ora tocca a me. Faccio una i, poi un grande cerchio che prende gran parte di lei, per una o. Poi “n” e ancora “o”. Scherzo. Lei si volta e finge di picchiarmi. Ci baciamo ridendo. Mi chiede di dormire, per ascoltare il ritmo del mio respiro e confrontarlo con il suo. Dice che, se saranno all’unisono, vuol dire che staremo insieme per sempre.

 

È passato un giorno, due, dieci? Ora sto solo in macchina, la Punto che usavo allora. La saluto come una vecchia amica. Sono tra le persone sentimentali che si commuovono quando danno via l’auto, che la amano come un cavaliere antico amava il suo cavallo. Mi rivedo mentre premo il piede sull’acceleratore (allora non esistevano i multavelox) e, arrivato alla massima velocità, grido Assia, Assia ti amoooo!

 

Credo di stare peggio, perché non ho più immagini belle. Vedo solo padre Raffale che mi tortura il petto e la gola. Mi stringe e non mi fa respirare.

All’improvviso apro gli occhi è la vedo: Assia è qui con me!

Non posso sbagliarmi, benché indossi la mascherina è lei, i suoi occhi sono inconfondibili. È lei e mi sta curando. Quale miracolo? O forse sono passato nell’aldilà e ci siamo rincontrati?

Succede ancora. Ogni volta che apro gli occhi la vedo. Mi sforzo di aprirli apposta tutte le volte che posso, anche quando sento dolore e vorrei solo morire. Assia, finalmente l’ho ritrovata. La mia vita è stata tutta una rincorsa e questo è il punto di arrivo. Sono con lei, tutto il resto non conta.

 

Il mio ricovero in ospedale è durato 60 giorni. Il medico, con un largo sorriso (somiglia a padre Raffaele, senza la barba) mi sta dicendo che ho superato la malattia, che presto potrò uscire. Recupero le forze per chiedergli ciò che mi sta a cuore. La mia voce è un sussurro roco, ma ha il sapore bellissimo della guarigione. Risponde che farà venire l’infermiera che si è occupata di me. Arriva una mora corpulenta che si avvicina pesantemente. Mi crolla il mondo addosso: è stata tutta un’illusione, ho solo sognato di vedere Assia. Il cuore mi si riapre quando dice che lei mi ha solo dato le medicine, ma un’infermiera volontaria si è occupata di me, come un angelo custode. Aggiunge che senza la sua dedizione sarei certamente morto.

Poi arriva lei, la volontaria e io scoppio a piangere, senza riuscire a dire altro. Non è vero che la mia preghiera sia rimasta inascoltata. Il Signore esiste ed è infinitamente buono. Mi ha mandato un angelo custode, mi ha mandato Assia.

Anche lei piange quando si avvicina.

Non sono Assia, dice, Assia non c’è più. Non sono Assia, papà.

 

 

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Pegasus edizioni, 2023

Bruno de Filippis


Bruno de Filippis

Bruno de Filippis, magistrato dal 1978, autore di numerosissime opere giuridiche, pubblicate dalle maggiori case editrici nazionali, direttore e curatore di collane, più volte ascoltato come esperto di diritto di famiglia dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha collaborato alla stesura di leggi, tra cui la 54/2006, in tema di affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio. Ha presieduto o ha partecipato come relatore ad innumerevoli convegni in svariate località italiane. Ha diretto l’attività di commissioni di studio per la riforma del diritto di famiglia. Ha elaborato progetti di riforma per il riconoscimento dei diritti delle coppie non matrimoniali e delle coppie composte da persone dello stesso sesso, dei minorenni adottati nelle forme dell’adozione in casi particolari, dei nati da madri che non intendono essere nominate e delle persone che ricorrono alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.