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La trilogia di Bruno de Filippis

Cheronea

1.     Antefatto

In quel periodo, la mia mente era occupata da due pensieri fissi ed il secondo era addirittura prevalente sul primo, che pure poteva dirsi una specie di ossessione.

Dimostrare la mia teoria sui terremoti era da anni lo scopo della mia attività e delle mie ricerche, ma l’indagine sull’infedeltà di Elena al momento mi ossessionava di più.

Passavo al setaccio la sua borsa, i suoi cassetti. Scorrevo freneticamente il suo iPhone mentre lei dormiva o era in bagno. Tentavo di indovinare la password del suo p.c. o cercavo pretesti per farmela dire.

Non arrivai mai a seguirla, perché conservavo un briciolo di dignità, ma c’è mancato poco a che, perdutola del tutto, non mi ritrovassi dinanzi alla sua espressione stupita ed offesa mentre mi scopriva accovacciato dietro la sua auto o nascosto all’angolo del negozio dove era entrata.

Elena è bellissima e lo è sempre stata. Sin dal primo momento ho trovato la sua bellezza esaltante ed eccitante. Al nostro primo incontro, io professore e lei brillante studentessa, nella mia immaginazione l’ho subito chiamata Elena, paragonandola alla donna più bella dell’antichità e, quando ho saputo che proprio questo era il suo nome, ho ritenuto ciò un chiaro segno del destino.

Molte hanno occhi, pelle e capelli chiari, ma la combinazione di colori che lei esprime è inimitabile. Si può dire che, da subito, io mi sia perso nei suoi colori, trovando in essi una ricetta perfetta di armonia e bellezza. È come se la stessa natura, che sa quale sfumatura di blu deve avere il mare al tramonto e quale vestito deve mettere la terra per intonarsi alle fantasie del cielo, abbia provveduto a disegnare Elena sulla sua tavolozza creativa.

Ed è sexy, terribilmente sexy, di quella sensualità involontaria ed apparentemente innocente, che può tramortire qualunque uomo ed indurlo, se serve, a rinunciare ai principi di una vita o ad una alta missione.

Proprio di ciò mi preoccupavo e, pur sperando di non trovarle, continuavo a cercare le prove del suo tradimento. Volevo separarmi, volevo ucciderla, volevo tutto e niente nello stesso tempo, ma, soprattutto, volevo sbagliarmi e sperare che fosse ancora solo e tutta mia.

Le sue sparizioni, le scuse banali, le telefonate per le quali si appartava, alcune sue palesi bugie erano per me ragione di grande tormento. Le lettere che le scrivevo e non le davo si mischiavano, sulla mia scrivania e nel mio p.c., alle carte sui terremoti, alle mappe geografiche, ai calcoli ed ai voli pindarici delle mie associazioni mentali.

Stavo ripercorrendo le tappe del terremoto di Reggio e Messina del 5 febbraio 1783, che conteneva riscontri molto importanti per me, quando sentii per la prima volta la voce nella mia testa. Non veniva da fuori, ma certamente da dentro, come se mi avessero installato un microfono in filo diretto con il cervello. Non capivo cosa dicesse, non avevo ancora imparato ad ascoltarla o forse chi parlava non aveva ancora capito come fare per comunicare correttamente con me.

Nei giorni seguenti, la voce divenne più forte e pulita, anche se ancora non ne decifravo il senso.

Ovviamente pensai di essere sulla strada della pazzia: sentire le voci è un chiaro sintomo di psicosi o simili malattie mentali. L’idea non mi faceva paura, anzi forse era meglio così, se Elena mi tradiva.

Una sera che non dava notizie di sé da ore: cellulare spento, nessun avviso, la voce disse chiaramente il mio nome. L’interlocutore era finalmente riuscito a mettere a fuoco il suo sistema di comunicazione.

Claudio, Claudio. Lo ripeté più volte, come compiacendosi del suo successo.

Trovandomi in piena ossessione, risposi invocando Elena e chiedendole se era lei che mi parlava, chiedendole dove fosse e perché non dava notizie di sé.

La voce, indifferente alle mie angosce, ripeté ancora il mio nome, aggiungendo, come una litania, una serie di date e luoghi, che riconobbi perché legate ad alcuni dei più famosi terremoti della storia: Costa dell’Ecuador, 1906; Assam, Tibet 1950; Prince William Sound, Alaska 1964; costa occidentale di Sumatra del nord, 2004; costa orientale di Honshu, Giappone 2011; Kathmandu, Nepal 2015. Se voleva catturare la mia attenzione, la voce non poteva fare di meglio.

Poi il collegamento si spense e non tornò per giorni.

Elena, invece, tornò quasi all’alba.

Mi trovò seduto in salotto, con gli occhi rossi e la testa tra le mani, in uno stato più simile al disorientamento psichico che non al sonno o alla veglia.

-         So che sai – disse – ma è finita.

Non riuscii a replicare prima che lei aggiungesse: - Non chiedermi nulla, non ti dirò mai nulla, ma con lui è finita, è finita per sempre.

Aveva un abito moderatamente scollato, attraverso cui sentivo, più che vedere, palpitare il suo seno. Le sue gambe ben proporzionate, le caviglie sottili, erano ferme ad un passo da me, come indecise se avvicinarsi ancora o andar via.

Non disse altro ed aspettava che io parlassi, consapevole dell’importanza della mia risposta.

In quel momento, mi venne in mente l’immagine della goccia di pioggia che, cadendo sulle Alpi, per un’indistinguibile sfumatura può prendere due direzioni diverse e finire nel Mediterraneo o nel Mare del nord.

Non volevo che Elena finisse lontano da me: l’idea era del tutto insopportabile. L’attrazione fisica che lei suscitava era irresistibile. Sapevo che ne era consapevole e non volevo esserne succube. In fondo sono considerato una mente, se non una specie di genio; non potevo essere così insulsamente schiavo del suo fascino.

Invece lo ero.

Pensai di darle almeno uno schiaffo, un solo schiaffo per assicurarmi il rispetto di me e poi abbracciarla, ma, lo confesso, non ci riuscii. Un attimo dopo ero stretto alle sue gambe e, inginocchiato davanti a lei, dicevo frasi senza senso, in un misto di pianto e di riso, di grida e di parole d’amore.

Quella notte ci amammo e, da parte mia per lo sconvolgimento vissuto e la paura di perderla, da parte sua, forse, per il senso di colpa, fu una delle notti più magiche che noi avessimo mai vissuto.

 

2.       Torna la voce

La voce tornò dopo quasi una settimana. Stavo tenendo una lezione, ma ormai avevo sviscerato gli argomenti più importanti. Congedai gli studenti in anticipo e molti di loro ne furono lieti. Rimasto solo, mi misi in ascolto. Ora era addirittura piacevole, mi carezzava il cervello come una musica.

-         Devi andare in Calabria, in un posto che ti dirò. Lì c’è la soluzione che stai cercando. Devi avere coraggio e so che ne hai, ma devi avere anche piena fiducia in me.

Puntando l’attenzione su di un aspetto forse meno importante, chiesi perché diceva di sapere che avevo coraggio. La voce rispose citando episodi della mia vita che avevo quasi dimenticato, quando, più per incoscienza che altro, da ragazzo avevo fronteggiato un bullo o, molto più tardi, avevo tenuto testa al rettore mentre tutti i miei colleghi saggiamente tacevano o quando avevo inseguito un rapinatore armato di coltello e, con le mie grida, ne avevo consentito la cattura.

-       Come fai a saperlo? - Chiesi.

La voce ignorò la mia domanda e diede precise indicazioni sul percorso da seguire e la località dove andare. Più che una proposta, sembrava un ordine.

Ciò che mi convinse ad andare fu il richiamo alla mia equazione sulla frequenza simmetrica dei terremoti, equazione che avevo faticosamente elaborato e della quale pensavo che, se fosse stata confermata, sarebbe stata legata al mio nome, dandomi un frammento di immortalità. La voce la conosceva e, anzi, la elaborò ulteriormente, fornendo un passaggio successivo, cui non ero ancora arrivato.

Avevo ormai esaurito le spiegazioni logiche sulla provenienza e natura della voce ed ero pronto ad accettare quelle illogiche. Il fatto che essa conoscesse la mia teoria ed anzi fosse capace di migliorarla mi convinse definitivamente della sua natura aliena. Ero pronto ad un “incontro ravvicinato” con intelligenze di altri mondi.

Ciò mi pose in uno stato di euforia e tensione, che cercai di nascondere alle persone che mi erano vicine. Nessuna di loro avrebbe raggiunto altra conclusione, se avessi raccontato i fatti, che non quella di una mia improvvisa pazzia. Avrebbero detto che le troppe ore passate a studiare ed a fare calcoli, nonché i problemi familiari, che i più attenti avevano intuito, avevano fatto definitivamente saltare il mio equilibrio. Qualcuno avrebbe subito pensato alla possibilità di prendersi la mia cattedra, pensionandomi con molto anticipo. In effetti mi sentivo in uno stato di continua ubriachezza e faticavo a mettere a punto i miei pensieri. L’unico modo per risolvere la situazione era semplicemente andare a vedere.

Così realizzai i preparativi burocratici, inserendo il viaggio nell’ambito delle mie ricerche, nonché i preparativi più concreti e partii con il camper dell’università, accompagnato da Carla, mia collega e preziosa collaboratrice da lunga data.

I rapporti con Elena continuavano ad essere ottimi. Più volte ero stato istintivamente portato ad eseguire rappresaglie, a ricordarle o farle pesare il mio “perdono”, ma saggiamente non l’avevo fatto. La mia scelta di restare insieme non poteva essere parziale o condizionata, pena l’inferno. Se avevo deciso di volerla ancora e comunque (e solo io so che non potevo fare diversamente), dovevo comportarmi con coerenza. Dentro di me, però, covavo una rabbia inesauribile ed il conflitto mi macerava.

L’innamoramento è come una febbre, ma anche la gelosia lo è. Doppiamente malato, non avevo scampo. Talvolta pensavo anch’io che la voce potesse essere frutto di una mia alienazione mentale e, per cancellare al più presto quest’altra paura, acceleravo i preparativi.

La scena della partenza per quel viaggio è solidamente registrata nella mia memoria. La memoria non è una funzione che agisca sotto stretto controllo del cervello e della volontà, ma risponde a ragioni proprie, che la ragione non conosce. A volte, attraverso circuiti sommersi, tornano in mente ricordi insignificanti, pezzi di filastrocche, vecchie immagini o frasi che, in una scelta consapevole, non meriterebbero gli onori del ricordo.

Eravamo prossimi all’estate e faceva già troppo caldo. Odio sudare ma, per la temperatura esterna e la mia eccitazione, non potevo evitarlo. Baciai Elena senza slancio, sapendo (e questa è la ragione del mio odio per il fenomeno) che non sopporta che le si avvicinino persone sudate. Lei invece interpretò il mio comportamento come freddezza e, istintivamente, guardò Carla già seduta al posto di guida del camper.

Per paradosso, si comportava come se fossi io il traditore o l’aspirante tale.

Elena era splendente e divina (sì, lasciatemelo dire, per me è tale) come al solito: gli abiti leggeri le donano molto, valorizzando la sua figura sottile ma piena, con tutte le curve giuste. Carla, invece, era il ritratto della scienziata tutta biblioteca e casa. Capelli raccolti, occhiali colorati e tondi, camicia con maniche larghe e jeans non troppo stretti, adeguati al suo fisico. L’altra sua personalità, di madre scrupolosa (ha due bambine), al momento non era presente. Era stata lasciata altrove, come un abito da rindossare rapidamente al ritorno.

Non è brutta affatto, Carla, ma è con me da tempo ed io la guardo e la considero come una sorella. Sul lavoro, raramente penso ad altro e per me Carla è il mio lavoro.

Elena salutò Carla lanciandole un bacio e Carla rispose con un simpatico ondeggiare della mano. L’unico elemento fuori posto ero io, con il mio imbarazzo ed il sudore, che tra poco il condizionatore del camper avrebbe azzerato.

 Nel viaggio parlammo poco di terremoti e molto di psicologia, con la confidenza che avevamo tra noi.

Carla disse che io ero a mio agio su qualsiasi palcoscenico, bravissimo quando mi trovavo al centro dell’attenzione, ma poco capace di gestire un rapporto a due e del tutto ingenuo in amore. Le risposi che lei era perfetta nell’organizzare qualunque cosa, tanto che, se Garibaldi l’avesse chiamata per la spedizione dei mille, i garibaldini avrebbero trovato nel loro zaino pasti preconfezionati e chiusi con un fiocco, con il giusto dosaggio di calorie prima e dopo la battaglia e Vittorio Emanuele avrebbe avuto con largo anticipo un fax con le coordinate dell’appuntamento a Teano, ma che talora aveva convinzioni apodittiche ed indimostrate ed era capace di vertiginose contraddizioni di comportamento.

Un po’ piccati per le reciproche verità, per qualche tempo restammo zitti. Intorno, tutto sembrava tranquillo, mentre viaggiavamo tra paesaggi in movimento e limiti di velocità ed io mi trovavo con i piedi sul tappetino del camper e la mente molto più in alto, sospesa tra realtà, sogni e follia.

 

3.     La porta dell’inferno.

Carla aveva sistemato tutti gli strumenti per le misurazioni e stavamo eseguendo verifiche. Avevamo dati anteriori e successivi al sisma, precisi per l’epoca recente e più incerti e frammentari per il passato. L’epicentro del terremoto (anzi della prima scossa, perché per le successive si spostò, risalendo verso nord), doveva trovarsi proprio sotto di noi, nei pressi di Polistena, a 254 metri sul livello del mare, come i miei calcoli dimostravano e come la voce, facendomi andare proprio lì, indirettamente aveva confermato.

Il paesaggio era ridente, la natura abbracciava ogni cosa e, nella località in cui ci trovavamo, ben fuori dal paese, vi erano i ruderi di un fabbricato, forse una casa di campagna, ridotti ormai a poca cosa e quasi indistinguibili nel mare di verde.

Come mi era stato dettato, scesi dentro un pozzo asciutto e di là, passando per una grotta o i resti di un’antica cantina, giunsi dinanzi ad un muro, semicadente ma ancora in piedi, come un soldato cui sia stato ordinato di mantenere la posizione e che l’abbia fatto a dispetto di ogni possibilità umana.

Carla era abituata alle mie scorribande, a volte irrazionali, mentre compievamo rilievi o cercavamo dati e dopo aver altre volte detto che ero un ragazzaccio, curioso ed imprudente, aveva ormai smesso di ammonirmi. Si preoccupò però, quando le chiesi di passarmi un piccone.

-         Ho intenzione di mangiare serenamente le nostre scorte, se non addirittura cenare in paese, in una bella trattoria con cucina tipica e poi fare una ricca dormita e non voglio invece sperimentare la rapidità dei soccorsi in questa zona, restando intanto a scavare freneticamente per tirarti fuori da lì. – disse.

Ciò nonostante, riuscii a farmi passare il piccone. Il muro venne giù quasi subito, in una nuvola di polvere che mi soffocò, ridestando la mia allergia. Mentre cercavo di respirare (e nei miei sforzi dovevo somigliare ad un pesce appena pescato) Carla scese a prestarmi soccorso.

Dopo qualche minuto, normalizzatosi il mio respiro, entrambi, alla luce della torcia che Carla, perfetta come sempre, aveva ovviamente portato, volgemmo lo sguardo al di là del muro.

Non sono un esperto di entomologia e non so dire di che specie fossero gli insetti che correvano sul pavimento e che noi avevamo disturbato, ospiti non invitati a casa loro. Al di là di uno spazio vuoto c’era semplicemente una porta, con una rudimentale maniglia ed una scritta, che leggemmo avvicinandoci e puntando la torcia.

La prima parte non suscitava particolari timori e la riconoscemmo in quanto parte di un trattato dell’epoca, ma la seconda sì:

 

Udissi improvvisamente nelle più profonde viscere della terra un orrendo fragore;

 un momento dopo la terra stessa orribilmente si scosse e tremò.

 

PORTA DELL’INFERNO

 

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Bruno de Filippis

Bruno de Filippis, magistrato dal 1978, autore di numerosissime opere giuridiche, pubblicate dalle maggiori case editrici nazionali, direttore e curatore di collane, più volte ascoltato come esperto di diritto di famiglia dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha collaborato alla stesura di leggi, tra cui la 54/2006, in tema di affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio. Ha presieduto o ha partecipato come relatore ad innumerevoli convegni in svariate località italiane. Ha diretto l’attività di commissioni di studio per la riforma del diritto di famiglia. Ha elaborato progetti di riforma per il riconoscimento dei diritti delle coppie non matrimoniali e delle coppie composte da persone dello stesso sesso, dei minorenni adottati nelle forme dell’adozione in casi particolari, dei nati da madri che non intendono essere nominate e delle persone che ricorrono alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.