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La trilogia di Bruno de Filippis

                      La Breccia


 

Devo fare un respiro profondo, calmarmi e ragionare.

Le pareti della stanza hanno cominciato a ruotare e davanti agli occhi ho luci colorate.

Mi trovo a vivere un’esperienza fantastica, incredibile.

Non so se sia capitata ad altri o addirittura se sia una cosa che capita a tutti, ma di cui è vietato parlare, altrimenti si perde. No, credo sia rarissima, forse una volta su un miliardo, oppure unica.

Pensare che, tra milioni di generazioni e chi sa quanti esseri umani che hanno popolato la Terra e combattuto la loro quotidiana battaglia per l’esistenza (li immagino in fila progressiva, dall’australopiteco in poi) possa essere capitato solo a me, mi dà i brividi.

Sono quasi astemio, ma cerco una bottiglia con qualcosa di forte e bevo un sorso. Brucia la gola ma è buono. Ne berrei ancora, ma devo restare sobrio e cominciare dal principio.

Mi chiamo Alessandro e ho 73 anni. Ho praticato la professione di avvocato, ma ora sono in pensione e ho lasciato lo studio a mio figlio. Ho qualche problema di salute, ma niente di grave, ho un fisico asciutto e, pur con qualche centimetro in meno rispetto al passato, sono abbastanza alto. Dico questo perché ho qualche pregiudizio nei confronti di chi lo è meno, perché talora ciò provoca uno smodato desiderio di autoaffermazione, come avvenuto per Attila, che non superava il metro e cinquanta, Napoleone, che non raggiungeva un metro e 55 e Putin che non so quanto sia alto (le affermazioni ufficialmente fornite sono certamente bugiarde), ma certamente ha ambizioni smodate, che si traducono in problemi per gli altri.

Mia moglie Gabriella è più giovane di me e lavora ancora. Ciò mi lascia molto tempo libero, che trascorro cercando di rendermi utile in famiglia e coltivando qualche hobby e qualche amicizia. Talora rimpiango, come è giusto, il passato, ma accetto tranquillamente il fatto di essere nella fase discendente della vita, nella quale ciò che potevo dare e fare l’ho già, per la maggior parte, dato e fatto.

Ma non voglio divagare. Tutto è cominciato martedì scorso. Ero in giardino e stavo potando il fico, una pianta, la mia, anch’essa colpita da delirio di onnipotenza. Non si accontenta di occupare il suo posto, godere dei raggi del sole e sentirsi utile producendo i suoi dolci frutti, che fanno impazzire di gioia le persone che li amano e le vespe, le quali, quando è il momento, si danno appuntamento e danzano insieme intorno a lui, ma ha deciso di estendersi, occupando tutto il giardino e, verso l’alto, sfidando il cielo.

Dovevo tagliare innanzitutto i rami troppo alti, i cui frutti sono difficili da raggiungere e finiscono per schiacciarsi al suolo. La carica del potatore elettrico telescopico si avverte nel proprio corpo e attraversa le mani, dando una sensazione di potenza. Una piccola illusione di cui alla mia età si ha bisogno. Si guardano i rami che si afflosciano e cadono e si pensa: “Accidenti, di cosa sono capace, nulla può resistermi!” All’improvviso i marrone del tronco e il verde dell’erba, che curiosava dal basso, si sono mischiati e poi hanno cominciato a causare una dissolvenza, come se qualcuno stesse gradatamente chiudendo l’otturatore della macchina da presa, facendo scomparire l’immagine per sostituirla con un’altra.

Al di là del fico c’ero io, ma non l’io di adesso, ero giovane.

Sapevo esattamente dov’ero, mi trovavo nella mia vecchia cinquecento e stavo dando l’addio al mio amore. Fuori cadevano leggerissimi fiocchi di neve e una lacrima, altrettanto leggera, solcava il suo viso. Maledetto il mio senso del dovere, sostenuto da rigidità e convinzioni ultrareligiose. Lei aveva una maglia arancione a collo alto e una gonna color crema, al collo una catenina d’argento e al dito la sorella della fedina che avevamo comprato insieme. La catenina brillava e quasi mi accecava. Pensando a mia moglie di allora e al bambino che mi aveva detto di aspettare, stavo ripetendo ossessivamente: “Non possiamo, non possiamo, non dobbiamo vederci mai più”.

La visione continuò. Lucrezia scese dall’auto con un movimento triste e garbato. I piccoli fiocchi di neve le caddero subito sui capelli, come per appropriarsi di lei, lanciandomi un cupo messaggio di distacco. Non aveva nemmeno chiuso la portiera dietro di sé che già avrei voluto rimangiarmi tutto quello che avevo detto, avrei voluto stringerla forte forte tra le braccia e baciarla. La chiamai e l’inseguii, ma lo sportello dalla mia parte era bloccato (avrei dovuto farlo aggiustare già da un po') e persi del tempo per aprirlo. Intanto era sparita. Corsi, piansi, chiamai: nulla. L’ultima immagine di lei che mi rimase fu quella di un corpo bellissimo di donna che, di spalle fuggiva via. A terra ritrovai la sua fedina.

La cercai inutilmente nei giorni successivi e ho continuato a cercarla, in ogni donna che poi ho incontrato, per tutta la vita.

Perché mi prese sul serio? Perché non capì che stavo solo dibattendomi tra due forze potenti e che comunque avrei finito per scegliere l’amore, che è più forte di tutto? Dalla mia prima moglie mi separai lo stesso, qualche anno dopo. Avrei dovuto farlo per Lei. Mia moglie non era neppure incinta, si era trattato di una bugia per trattenermi o, più probabilmente, per farmi sentire in colpa.

Intanto riapparve l’albero di fico. Il potatore telescopico era caduto ai miei piedi e l’erba era di nuovo verde.

Non si era trattato, né di un sogno, né di una visione. Era tutto nitido e preciso, come e più della realtà, della quale non sono abituato a guardare e a notare con attenzione i particolari.

La sera ero su internet a cercare una spiegazione. Sono abituato ormai a cercarle tutte lì, le spiegazioni delle cose che non so o le ipotesi sui segnali che manda il mio corpo, per capire se sono sintomi di qualche rara malattia. Navigando, mi imbattei nella definizione di multiverso, che è un’ipotesi secondo cui vi sono molti universi coesistenti, fuori del nostro spaziotempo, i quali possono dar luogo a dimensioni parallele. Non si tratta di fantasia, che pure spesso anticipa la realtà, ma di una teoria elaborata nella fisica teorica. Avevo forse incontrato una breccia che apriva li realtà misteriose?

Quelle immagini erano ormai sepolte nella mia mente e, speravo, quasi dimenticate. Perché dopo quarant’anni, tornavano a tormentarmi? Non bastavano tutte le lacrime che avevo versato allora? Ma se il multiverso avesse rappresentato la mia salvezza? Se dopo tanti anni .. se, se, se..

 

 

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Bruno de Filippis

Bruno de Filippis, magistrato dal 1978, autore di numerosissime opere giuridiche, pubblicate dalle maggiori case editrici nazionali, direttore e curatore di collane, più volte ascoltato come esperto di diritto di famiglia dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha collaborato alla stesura di leggi, tra cui la 54/2006, in tema di affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio. Ha presieduto o ha partecipato come relatore ad innumerevoli convegni in svariate località italiane. Ha diretto l’attività di commissioni di studio per la riforma del diritto di famiglia. Ha elaborato progetti di riforma per il riconoscimento dei diritti delle coppie non matrimoniali e delle coppie composte da persone dello stesso sesso, dei minorenni adottati nelle forme dell’adozione in casi particolari, dei nati da madri che non intendono essere nominate e delle persone che ricorrono alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.